George Steiner e la gabbia del museo ebraico
Nato a Parigi nel 1929 da famiglia tedesca, capace di far lezione in quattro lingue e di parlarne bene sei, autore di alcuni dei libri più importanti di critica letteraria e culturale degli ultimi quarant’anni (Le Antigoni, Dopo Babele, Morte della tragedia, Grammatiche della creazione) George Steiner è rimasto uno degli ultimi maitres à penser della cultura europea. E’ anche ebreo, sebbene questo aspetto della sua identità non sia stato mai messo molto in rilievo nella sua opera, benché mai negato. Qualche volta nelle sua presenza pubblica è emersa però una netta opposizione alla politica di Israele, che corrisponde alla sua definizione politico-intellettuale di scrittore liberal, spregiudicato, cosmopolita.
Oggi, arrivato quasi agli ottant’anni, in un volume che raccoglie in sette capitoli I libri che non ho scritto (Garzanti 2008, pp.300, € 16) e che dunque ha un carattere quasi postumo, Steiner prova a spiegare il perché di questo silenzio e anche di questa opposizione; tenta insomma di chiarire probabilmente anche a se stesso il suo rapporto molto tormentato con l’ebraismo. In un capitolo di una trentina di pagine intitolato “Sion” il critico disegna con notevole densità un’elencazione dei lati che gli appaiono caratterizzanti della condizione ebraica, lasciando ogni tanto trasparire che la storia lo riguarda, ma parlandone sempre con un certo ostentato distacco, alla terza persona plurale. Il testo parte dalla rivendicazione della necessità “per ogni uomo” “di arrivare a un’immagine chiara, a un concetto verificabile della propria identità” (p.103); ma subito questa domanda si divide in due, l’identità spiegata a se stessi e quella esibita agli altri (cioè in realtà costruita dal punto di vista degli altri) e subito è questa bizzarra identità esterna questo guardarsi attraverso gli occhi degli altri che prevale. Sicché già dopo pochissime pagine, questa domanda si trasforma radicalmente: “Gli ebrei ci sono. Ma che cosa li rende tali?”
La risposta è sfaccettata. C’è qualche pagina sul rapporto del nostro popolo col Libro e la scrittura, accostati e contrapposti a quelli con la viva lingua ebraica, che sarebbe l’identità originaria e permanente di Israele; ci sono osservazioni sul successo economico e la generosità benefattrice di molti, altre sul carattere eternamente inquietante e quasi sovversivo di questa tendenza alla beneficenza; si parla con esaltazione del successo intellettuale degli ebrei, si ammira profondamente la poesia dei Salmi e di certi brani della Torah, ci si interroga sulle ragioni dell’antisemitismo e su quelle del numero degli intellettuali e degli artisti ebrei (più nella diaspora che in Eretz Israel, a discutibile parere dell’autore). Nel finale si contrappone in maniera molto cruda e semplicistica l’esemplare condizione di “ospiti” caratteristica della diaspora con la realtà di Israele, una normalità statuale raggiunta che in quanto tale costringerebbe glie ebrei a tornare alla violenza e al nazionalismo e disperderebbe la differenza etica ebraica.
A parte queste osservazioni su Israele, che del resto non sono nuove in una parte (peraltro minoritaria) della pubblicistica ebraica, le pagine di Steiner possono sembrare una brillante caratterizzazione dell’identità ebraica da parte di un’intellettuale ebreo e così sono appare a un lettore certamente non sprovveduto e spesso polemico con Steiner, come Umberto Eco. E’ innegabile una grande capacità di sintesi, una forte cultura (anche se forse non delle radici della cultura ebraica) e sentiamo anche una grande ammirazione, una esaltazione che arriva fino a chiedersi se non vi sia una qualche ragione genetica della superiorità ebraica. E però vi è in questo testo qualcosa di profondamente disturbante, qualcosa che un ebreo finisce col sentire come profondamente sbagliato, al di là della posizione politica su Isarele. Cerchiamo di spiegare: è evidente dal punto di vista ebraico che quella di Steiner è un’ammirazione dall’esterno, che però si legittima una parentela. Un esterno che ogni tanto allude alla propria internità, o un interno che si esclude da solo per guardare dal di fuori.
Steiner è di famiglia ebraica, ma il suo punto di vista è collocato solo nella cultura europea, condivide e assume il buon senso europeo politicamente corretto, non appare mai desideroso di comprendere o tantomeno di condividere il destino collettivo del popolo ebraico; in qualche modo si pone su perfino un terreno cristiano, anche se talvolta mostra di rovesciarne il segno, per esempio sulle persecuzioni. Cristiana o comunque esterna è infatti la domanda fondamentale di questo saggio (perché il popolo di Israele sia riuscito a sopravvivere così a lungo), posto da lontano è il giudizio su ciò che vale nella nostra tradizione (in definitiva, ciò che ha arricchito la cultura europea), esterno (e un po’ estetizzante) è lo sguardo sui costumi e la vita spirituale dell’ebraismo, stupidamente liquidatorie certe citazioni dalla Torah (p 107). Il solo momento di partecipazione autentica lo troviamo quando si parla di persecuzioni, anzi delle piccole angherie quotidiane (giudicate quasi peggiori delle prime) che Steiner racconta di aver sperimentato direttamente da scolaro. Ma certamente come esperienza di condivisione questa è molto povera; sicché allo sguardo di Steiner non appaiono quasi altre dimensioni ebraiche che non siano la grande produzione culturale dell’assimilazione otto e novecentesca, la tradizione delle Scritture viste come forme letterarie, e l’opaca incomprensibile esibizione dell’esteriorità anacronistica del mondo haredì. La forma di vita ebraica, la specifica religiosità, l’esperienza dell’ebraismo come società e popolo sembrano totalmente invisibili per Steiner. Come il figlio cattivo del seder, il critico, quando non si occupa del giudizio della cultura europea, sa solo chiederci perplesso in sostanza che cosa significa “per voi” questo ebraismo che sopravvive a ogni prova: non si considera davvero dentro al gioco. Per questo crede di poter giudicare i destini dell’ebraismo dal punto di vista di un’estetica esteticamente astratta, per questo si permette di preferire l’esilio a Israele.
Il risultato inevitabile è una varietà sottile di quella posizione politico-culturale che Steiner riconosce come “odio di sé”: non la versione ardentemente politica di un Chomsky o quella teologica di una Simone Weil, ma il disagio sottopelle per tutto ciò che sia ebraismo vivo: Israele, il sionismo, il chassidismo di oggi. Per la stessa ragione, in fondo, Steiner trova difficile da comprendere il monoteismo di fronte al bel politeismo classico, così altrimenti pittoresco, se non come premessa a un’etica sociale progressista che naturalmente condivide.
Bisogna riflettere su questo atteggiamento che ama ciò che è ebraico purché museificato, reificato, antico, perdente, diviso dal mondo – ce lo troviamo infatti continuamente intorno, da parte di quelli che dicono di avere simpatia per la “cultura ebraica” anche se non capiscono perché ci separiamo e perché difendiamo l’autonomia del nostro popolo, invece di fare i custodi del nostro stesso museo. Steiner è più lucido, intelligente e sensibile di molti che in fondo condividono tale sentimento – ma non meno pericoloso. Per questo è importante leggere queste pagine, riflettervi, capire che la passione per la “cultura ebraica” e perfino l’ammirazione per la sopravvivenza di Israele e la condivisione dei suoi valori sociali può coniugarsi al rifiuto della sua vita concreta, al distacco totale dalla sua dimensione di popolo.
Ugo Volli