Freedonia o Israele?

Che cosa rappresenta Israele? Un sogno di salvezza, il luogo dove la sua famiglia avrebbe potuto salvarsi? Il mostro dell’occupazione, raccontato tutti i giorni dai giornali? Il futuro, un modo nuovo di intendere l’essere ebreo? Uno stato come tanti altri? Riccardo, il protagonista dello spettacolo messo in scena da Enrico Fink, e rappresentato in teatro in occasione del Moked di Parma, racconta Israele attraverso i propri occhi, e attraverso un dialogo fitto – anche se immaginato – con i compagni con cui ha condiviso la passione politica, il pacifismo – e nei confronti dei quali Israele ha sempre rappresentato un discrimine, un motivo di differenza.
Via da Freedonia, quale è il significato del titolo del tuo spettacolo?
Via da Freedonia è un monologo teatrale con musica il punto da cui parto, come dico all’inizio dello spettacolo, è questo: sono cresciuto in Italia, dopo la guerra gli ebrei della generazione di mio padre si spaccarono in due chi andò in Israele, chi invece andò a Freedonia, a sognare la libertà. A Freedonia non c’era niente da ricostruire, niente era reale, niente provocava sofferenze: perfino la guerra non era vera, era la guerra lampo dei Fratelli Marx. Freedonia rappresenta come ti dicevo un luogo ideale, libero e per alcuni ebrei della generazione di mio padre ha rappresentato il simbolo di un luogo ideale dove andare a vivere. Per alcuni il luogo ideale è stato lo Stato di Israele, per altri c’è stata soltanto una realtà immaginaria.
E tu dove ti collochi a Freedonia, nello Stato di Israele o dove altro?
Io sono cresciuto in una realtà piuttosto lontana dal mondo ebraico, dove i riferimenti non erano lo Stato di Israele, ma trovare il proprio spazio in un mondo a volte ostile, nel diventare adulto penso ci sia un momento nella vita di ciascuno di noi in cui si ha il bisogno di confrontarsi con la realtà dello Stato di Israele. A questo punto ho capito che Israele rappresenta un modo di essere ed anche se ero molto impegnato politicamente ho sentito il bisogno di difenderlo. Per fare questo ho dovuto studiare. Quello che racconto in questo spettacolo è il bisogno di raccontare non soltanto le cose belle, ma anche le ombre.
Quale è il pubblico che viene ad ascoltarti?
Lo spettacolo è indirizzato a chi non sa cosa significa amare Israele, cosa significa essere un ebreo italiano, per questo uso anche le parole di Grossman che oltre ad essere molto belle sono anche molto significative, credo che egli abbia dato un’immagine di Israele bellissima, persino quando ha pronunciato il suo discorso in occasione della cerimonia in memoria di Rabin, ed egli aveva perso suo figlio in guerra pochi giorni prima, è riuscito a parlare in un modo che per un essere umano è difficilissimo e la domanda che io faccio è questa: noi ce la faremmo? Riusciremmo a metterci in quella realtà prima di esprimere giudizi?

Lucilla Efrati