Un linguaggio nuovo per parlare a tutti
“Israele, il sionismo e la memoria della Shoah sono stati i pilastri ideologici d’intere generazioni di ebrei italiani ed europei. I quarantenni di oggi hanno introiettato nel profondo queste tematiche. Ma per i giovani sono ormai questioni di valenza molto diversa, vissute in termini più intellettuali e con minore coinvolgimento valoriale”. Victor Magiar, assessore alla cultura Ucei, ne parla come del suo “assillo principale”. E’ lo stacco generazionale, emerso con grande evidenza in tanti incontri del Moked a Parma, che ha messo in crisi quella trasmissione d’idee e ideali che per decenni avevano tenuto insieme il mondo ebraico. E’ dunque da qui, sostiene, che si deve partire per restituire nuove prospettive di riflessione.
Victor, usciamo da un Moked ricco d’incontri e suggestioni. Proviamo a delineare un bilancio.
E’ stato senz’altro un bel Moked. Ricco di discussioni importanti e di ottimo livello, che è riuscito a fornire punti di vista molto diversificati sui sessant’anni dello Stato d’Israele e sul sionismo. L’unico neo è che un’esperienza di riflessione così importante dovrebbe coinvolgere un numero maggiore di persone. Realizzare una più ampia partecipazione di pubblico e ringiovanire la platea sono nostri precisi obiettivi per il futuro.
Il Moked invernale è però per tradizione un po’ meno partecipato di quello in programma a primavera.
La data invernale è sempre più difficile per le famiglie, per gli impegni lavorativi e l’avvicinarsi delle vacanze scolastiche. Va detto però che uno dei problemi è dato dalla quota economica di partecipazione che per molti può risultare elevata. Ne abbiamo discusso proprio nel Consiglio Ucei, svoltosi l’ultimo giorno del Moked, cui hanno preso parte i presidenti di Comunità.
Qualche proposta pratica?
Stiamo pensando di ricorrere, nel futuro, ai fondi dell’otto per mille così da aiutare le Comunità a regalare a una famiglia la partecipazione all’incontro. In parallelo stiamo vagliando alcune innovazioni tecniche per abbassare le quote. Occasioni di questo tipo devono infatti essere quanto più condivise possibile.
Accanto al Moked la politica culturale prevede altri momenti di confronto.
Negli ultimi due anni, grazie anche al contributo del mio predecessore Dario Calimani, abbiamo innovato in modo profondo il modo di lavorare, attivando sulle tematiche culturali una stretta sinergia che, accanto al Dipartimento educazione e cultura diretto da rav Roberto Della Rocca, coinvolge tutte le altre strutture Ucei, in particolare quella dei giovani. I risultati sono molteplici. Mentre proseguono le attività volte alla comunicazione con l’esterno, quali il Giorno della Memoria o la Giornata della Cultura Ebraica, stiamo portando avanti un’attività di formazione che coinvolge tutte le Comunità. E’ stata avviata infatti una serie d’incontri con i presidenti e i rabbini per discutere le prospettive del mondo ebraico italiano.
Tema non da poco.
Ci rendiamo tutti conto che il numero degli iscritti sta calando in modo drammatico e che per i giovani le nostre istituzioni mancano di appeal. I pilastri ideologici di altre generazioni ebraiche sono da loro vissuti in modo meno coinvolgente, più intellettuale. Per chi oggi ha vent’anni Israele non è il miracolo che fu per noi. Ma un fatto scontato. Anche la memoria ha un impatto diverso, non ha implicazioni dirette sul quotidiano: è qualcosa vissuto dai nonni e dai bisnonni. E lo stesso lessico usato un tempo per trasmettere questi valori è cambiato.
Si rischia così di saltare una generazione, creando vuoti pericolosi.
Per capire come si può trasmettere ai giovani l’esperienza ebraica è necessario un lavoro di recupero dei nostri valori più profondi. Studiando nuovi linguaggi e nuove tecniche per farlo e valorizzando i tanti strumenti che rimangono validi. E’ la preoccupazione principale che ci accompagna nella nostra programmazione culturale.
Questo può significare anche dover intervenire sui formatori?
Entro certi limiti sì. In una società complessa come la nostra potrebbe essere opportuno, ad esempio, che i rabbini abbiano anche nozioni di psicologia o di sociologia. E, sempre in tema di culto, se le Comunità lo ritengono utile si potrebbe pensare di riorganizzare il sistema che oggi vede dei bravi rabbini coprire a rotazione le realtà più piccole.
Nell’immaginario degli italiani la politica culturale ebraica s’identifica con la Giornata della memoria e con la Giornata della cultura ebraica. Quale significato hanno questi eventi per l’ebraismo italiano?
C’è senz’altro una preoccupazione sul modo in cui si affrontano questi temi. In una società che offre migliaia di sollecitazioni e che attraversa una profonda crisi morale ed economica non possiamo infatti dare risposte di maniera o scontate. Sappiamo che gli aspetti cerimoniali, soprattutto del giorno dedicato alla memoria, sono deleteri. Dobbiamo dunque evitare la ripetitività e i momenti di circostanza. Per questo chiediamo alle Comunità e a quanti promuovono le iniziative di puntare sulla cultura e sull’istruzione: meglio una cerimonia di meno e una borsa di studio in più. Entrambe le manifestazioni rimangono comunque ottime occasioni di comunicazione che sortiscono ottimi riscontri.
Non c’è il rischio che si parli troppo dell’ebraismo?
Un tema che mi angoscia è proprio l’iperattivismo ebraico, che tanto spesso ha anticipato o è coinciso con gravi crisi storiche. Stiamo vivendo una stagione difficile dal punto di vista economico mentre risorgono nazionalismi e razzismi. La nostra grande tensione d’attività potrebbe distoglierci dal vedere la catastrofe che incombe. Una società in crisi diventa infatti pericolosa per le minoranze. Basti pensare alle pulsioni di fastidio e intolleranza già manifestatesi nei confronti dei rom. Se non saremo capaci di tenere gli occhi bene aperti potremmo non capire quanto sta accadendo e non essere in grado di porvi riparo.
Daniela Gross