Memoria, un’immagine di comodo e stereotipata corre il rischio di negare quella dell’ebreo vivente
A quasi dieci anni dalla sua istituzione, i tempi sembrano ormai maturi per una riflessione sul 27 gennaio, i suoi effetti e il senso che dovrebbe assumere soprattutto per il futuro. Credo si debba fare lo sforzo e che valga la pena soffermarsi soprattutto su quelli che definirei gli effetti più devianti del Giorno della Memoria. Un’analisi di questo tipo, seppure breve, mi sembra possa essere particolarmente costruttiva per mettere a fuoco sempre meglio le finalità a cui tendiamo come ebrei italiani.
Da una parte, nonostante l’informazione sulla Shoà abbia raggiunto molte persone, rimane spesso avvilente il disinteresse di studenti, professori o altri, che ormai annoiati, credono che “della Shoà se ne parli troppo”. Il 27 gennaio in questo modo sembra aver generato un’informazione molte volte anestetizzante piuttosto che educativa: gli ascoltatori, o molti di loro, non riescono a rimanere sensibilizzati, nell’immediato e, ancora di più, in prospettiva.
In secondo luogo, la celebrazione della “Memoria della Shoà” sembra aver generato soprattutto un’immagine di ebreo, quella dell’ebreo vittima: una figura “buona”, esaltata, imbalsamata, facile preda anche delle strumentalizzazioni. Questa immagine nega tuttavia, e non di rado, quella dell’ebreo vivente, che abita questo mondo e porta con sé invece una cultura, una storia e delle tradizioni ricche, vivaci e ben complesse.
Partendo quindi da queste constatazioni sempre più evidenti, credo sia particolarmente importante suscitare di nuovo e prima di tutto, due domande a mio avviso fondamentali: come si può sensibilizzare e costruire delle coscienze a partire dalla storia della Shoà? E noi, ebrei oggi, quale immagine ebraica vogliamo offrire?
Rav Roberto Della Rocca, direttore del Dipartimento Educazione e Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane