Aprirsi agli altri è il miglior modo per spiegare a tutti la sofferenza

Per costruire delle coscienze attive e consapevoli attraverso la memoria della Shoà, non basta allargare il contesto storico di riferimento. Esiste un altro “contesto” che dovremmo ampliare, credo, e questo è l’altro. Ma in che senso? Credo dovremmo imparare a partire anche dalle idee e le immagini di chi ci ascolta, per poterle poi ricostruire insieme e trasformarle in qualcosa di significativo e duraturo per entrambe le parti. Bisogna che la memoria della Shoà diventi una storia che riguarda l’altro più direttamente. Per questo credo che gli insegnanti, gli educatori, se ebrei in particolare, debbano offrire un ascolto paziente e disponibile partendo proprio dall’altro, senza scandalizzarsi di fronte a quelle domande e affermazioni apparentemente provocatorie, irritanti e “antipatiche”come ad esempio: “Scusi, se gli ebrei sono stati sempre perseguitati, ci sarà un motivo!?” oppure “Non le sembra che di questa Shoà, negli ultimi tempi se ne parli troppo! ?“ oppure “Come mai, gli ebrei che hanno sofferto tanto, ora fanno lo stesso ai palestinesi!?“. Questa disponibilità all’ascolto e alla comprensione è, a mio avviso, la condizione prima per stabilire un “contatto” e un ponte attraverso cui questa storia possa passare e sensibilizzare. Un approccio del genere ci costringe così a fronteggiare sempre nuove analisi e lasciare spazio a nuove sorprese: questo lavoro credo che alla lunga possa dare i suoi frutti e che rispecchi anche quegli aspetti tanto cari alla tradizione ebraica, che ci accompagnano come “scintille di salvezza”: la speranza e l’ospitalità verso se stessi, il vicino e lo straniero.

Rav Roberto Della Rocca, direttore del Dipartimento Educazione e Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane