dibattito/boicottaggio
La situazione che viene descritta nel libro di Shemot, l’Esodo, che iniziamo a leggere questa settimana è, per quanto piena di drammaticità, almeno semplice dal punto di vista identitario. Una famiglia compatta scende in Egitto, diventa un popolo concentrato geograficamente in una regione, ne esce tutta unita, e arriva tutta insieme nella Terra Promessa. Sarà in questa terra che comincerà a dividersi tra tribù, variamente alleate tra di loro, poi in due Stati. Poi con gli esili ci saranno ebrei da una parte e dall’altra del mondo. Oggi dopo emancipazione, sionismo e tutto il resto, l’identità ebraica, soprattutto in rapporto allo Stato d’Israele, è complicata, riusciamo poco a capirlo noi, figuriamoci all’esterno. Per fare un esempio, in questi giorni di guerra a Gaza veniamo dai media ripetutamente interpellati e chiamati a spiegare e sostenere (il più delle volte) le ragioni di Israele, mentre in rari casi alcuni ebrei, che si ricordano di esserlo solo in questa occasione, intervengono come tali per condannare Israele. Ma a quale titolo interveniamo? E’ una guerra di ebrei contro musulmani o di uno Stato contro un’organizzazione terroristica? E se è così perché dovremmo essere noi, che stiamo qui, e le organizzazioni comunitarie che ci rappresentano, a parlare? Le mie risposte sul perché e sul come ce le ho, ma sarebbe bene aprire un dibattito.
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma
Nella storia tragica e grottesca dell’antisemitismo riaffiora periodicamente la minaccia del boicottaggio socioeconomico: contro i negozi degli ebrei e contro l’acquisto di prodotti provenienti da Israele, senza dimenticare il numerus clausus degli studenti ebrei e certe mozioni contro le università israeliane. Oltre a essere mediocre moralmente, oggi questa idea è deficiente sul piano operativo risultando in una perdita da parte di chi la propone. Vediamo per esempio la Bilancia dei pagamenti di Israele nei confronti dei maggiori paesi. Se l’Unione Europea cessasse di acquistare da Israele, come qualcuno ha suggerito in questi giorni, Israele perderebbe 16 miliardi di dollari. Ma se Israele, per ritorsione o per carenza di fondi, cessasse di acquistare dall’Unione Europea, risparmierebbe 20,7 miliardi di dollari, ossia 4,7 miliardi di dollari in più. Se per ipotesi cessassero i rapporti bilaterali con Israele, la perdita secca annua sarebbe di un miliardo di dollari per l’Italia, 1,6 per la Germania, 1,1 per il Giappone, 2,4 per la Cina. Il disavanzo commerciale di Israele, dovuto alla scarsità di risorse naturali, ma compensato dalle forti capacità inventive e produttive, costituisce dunque una sovvenzione all’economia dei maggiori paesi. Per gli Stati europei e asiatici boicottare Israele sarebbe autolesionista. Negli Stati Uniti invece, nonostante il forte eccedente delle vendite di Israele rispetto agli acquisti, l’idea del boicottaggio non sembra proponibile.
Sergio Della Pergola, demografo Università Ebraica di Gerusalemme