Ucei e Comunità locali un equilibrio complesso

Nel 2009 ricorre l’ottantesimo anniversario dei Patti Lateranensi, cioè del concordato tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica.
Contestualmente alla definizione del regime pattizio con la religione di gran lunga maggioritaria, che veniva posta su un piano indubbiamente di favore rispetto alle altre, il regime fascista si pose il problema di disciplinare gli altri culti.
Si arrivò così alla legge sui culti ammessi (legge 24 giugno 1929, n. 1159), che dava tra l’altro facoltà al Governo del re “di emanare le norme per l’attuazione della presente legge, e per il suo coordinamento con le altre leggi dello Stato, e di rivedere le norme legislative esistenti che disciplinano i culti acattolici”. Il riferimento era univocamente ad una nuova disciplina delle Comunità israelitiche, visto che l’unica legge allora esistente era la legge Rattazzi sulle Università israelitiche, risalente al lontano 1857 e quindi preunitaria, che si applicava soltanto ad una parte del territorio italiano.
Il Governo veniva autorizzato a dettare una nuova disciplina delle università israelitiche mentre fervevano quelle che potremmo definire vere e proprie trattative tra Stato e rappresentanti dell’ente rappresentativo dell’ebraismo italiano (allora il Consorzio delle università israelitiche). Si arrivò così al regio decreto 30 ottobre 1930, n. 1731, che istituì le comunità israelitiche italiane e l’Unione delle comunità, con un intervento legislativo che era nel contempo un chiaro esempio di un sistema giurisdizionalista (che vede cioè lo Stato attivo sul fronte della regolamentazione delle confessioni religiose) e di una legge derivante da lunghe trattative e da un accordo con la confessione religiosa destinataria. Ebbe un ruolo determinante nella vicenda il giurista ebreo Mario Falco.
Tutte le vicende che portarono all’istituzione del Consorzio prima, alla legge Falco poi e quindi – a distanza di molti anni, nel 1987 – all’intesa con lo Stato sono narrate in un bel volume di Stefania Dazzetti uscito l’anno scorso: L’autonomia delle Comunità ebraiche italiane nel novecento. Leggi, intese, statuti, regolamenti, (Torino, Giappichelli, 2008).
Leggendolo, ho avuto modo di ripercorrere le vicende istituzionali-organizzative dell’ebraismo italiano nel corso del novecento, prendendo ancora più coscienza che molte delle questioni che oggi ci dilaniano si ponevano in termini più o meno analoghi già decine di anni fa.
Penso alle polemiche, anche di questi giorni, sul ruolo anche mediatico della Comunità romana e quello rappresentativo di tutti gli ebrei italiani attribuito inequivocabilmente all’Unione.
Già quando si andava verso l’istituzione del Consorzio tra le comunità israelitiche (parliamo del secondo ventennio del novecento) il ruolo della comunità romana si andò facendo sempre più forte, fino a trovare una sorta di legittimazione nello statuto del Consorzio (1920), che fissava nella capitale – per esempio – la sede degli organi e delle riunioni dell’ente. Ebbene, la sede è (ovviamente) sempre a Roma ed anche il nuovo statuto dell’Unione delle comunità ebraiche italiane recita (articolo 41, comma 3): “Il congresso si riunisce a Roma, salvo diversa delibera del consiglio dell’Unione delle comunità adottata dai due terzi dei suoi componenti”.
Più in generale, uno dei fili conduttori è quello dei rapporti tra organismo centrale e comunità.
Il Consorzio delle università israelitiche nasceva a seguito di un processo – per così dire – confederale: la galassia delle organizzazioni ebraiche locali, che avevano assetti giuridici diversi in base allo Stato preunitario di derivazione, decidevano di creare un organismo centrale, lasciando insoluto il tema delle effettive competenze del Consorzio stesso, che avrebbero dovuto essere precisate negli anni successivi, “o nel senso della semplice tutela dell’autonomia delle comunità o, piuttosto, in quello di orientamento e controllo delle loro attività, secondo gli obiettivi e dentro i limiti di volta in volta fissati dagli organi centrali” (pag. 33 del libro citato).
Mutatis mutandis è il tema per molti aspetti ancora oggi al centro del dibattito, che rende sempre vitale e dinamico, proprio perché mai completamente risolto, il tema dei rapporti tra Unione e comunità.

Valerio Di Porto, Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane