Diaspora. Noi, la Storia e il Novecento

Durante un amabilissimo ma frettoloso scambio di vedute, ho avuto la malagrazia l’altro giorno di ricordare ad Anna Foa il mio aforisma preferito (“Il giornalismo ha appestato il mondo con il talento, lo storicismo senza neanche quello”, Karl Kraus). Lei, che del lavoro di storico è riuscita a fare non solo esercizio di autorevolezza, ma anche una formidabile occasione di vedere e di comprendere messa alla portata del comune lettore, proprio non lo meritava. Ci ha riso su e so bene che non se l’è avuta a male, ma vorrei comunque cogliere l’occasione dell’uscita nelle librerie, del suo ultimo lavoro (“Diaspora, Storia degli ebrei nel Novecento”, Laterza editore) per porgerle pubbliche scuse. Il suo libro, di cui offriamo al lettore un’anticipazione qui di seguito, è lo straordinario e solido saggio di un talento che non rinuncia mai al rigore. Leggerlo al più presto possibile, in questa stagione così densa e travagliata, non è solo consigliabile, è quasi un obbligo.

gv

Dal terzo capitolo “Tradizione e modernità”:

1.Le energie liberate
Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, si verifica nel mondo ebraico una vera e propria esplosione culturale. Scrittori, pensatori, musicisti, artisti, antropologi, scienziati ebrei o di origine ebraica sembrano egemonizzare la cultura del tempo, sia per il loro numero, elevatissimo rispetto al loro peso numerico nella società, sia per le vette che raggiungono: da Marx a Freud, da Kafka a Warburg, da Einstein a Schoenberg, da Durkheim a Adorno, la cultura europea sembra improvvisamente fatta tutta in buona parte da ebrei. Data la ricchezza di questa storia culturale, che finisce per identificarsi con quella più generale dell’Europa tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, ci limiteremo a seguire alcuni di questi percorsi, concentrando la nostra attenzione su momenti particolarmente significativi, consapevoli però che molti altri percorsi altrettanto rilevanti resteranno fuori dall’analisi, molte domande altrettanto importanti resteranno inespresse.
Innanzitutto, come spiegare tutta questa creatività? La coincidenza con il momento dell’emancipazione, con il raggiungimento dell’uguaglianza civile e politica e dell’inserimento nella società, potrebbe farci pensare che si sia trattato dell’esplosione di energia che segue la liberazione dalle inferiorità e dalle oppressioni. Uscito dal ghetto, il mondo ebraico si sarebbe così sentito finalmente libero di esprimere le sue energie creative, e avrebbe impregnato il mondo di pensiero, letteratura, poesia, musica, pittura. Che questo elemento liberatorio sia presente è difficile negarlo. L’esplosione creativa non è però circoscritta all’Occidente, dove gli ebrei sono ormai pienamente emancipati, ma tocca profondamente anche il mondo russo, dove l’emancipazione è loro ostinatamente negata fino alla rivoluzione del 1917. La cultura di questi decenni non sembra così essere il frutto della sola emancipazione, ma delle trasformazioni che l’incontro con la modernità ha indotto negli ebrei, e quindi di una fusione culturale irripetibile, perché ancorata nel particolare momento storico, del mondo ebraico con quello esterno.
Sono processi che implicano profondi cambiamenti nell’universo mentale e culturale degli ebrei. L’accesso alla cultura esterna, con la frequenza delle scuole pubbliche e delle università, non ebbe infatti soltanto l’effetto di mutare i contenuti del loro sapere e della loro educazione, restringendo lo spazio delle scienze religiose. Esso reinserì globalmente il sapere della minoranza nel vasto complesso culturale e mentale del sapere esterno. Non che gli ebrei fossero stati nel passato radicalmente separati dalla cultura esterna. Anzi, una delle caratteristiche più salienti del mondo ebraico, soprattutto in Occidente, è il fecondo circuito di scambio che si era costantemente determinato con il mondo circostante. Uno scambio che la storiografia ha da tempo definito, seppellendo come riduttiva l’etichetta di «influenza», come un dinamico e multidirezionale circuito di rapporti, assorbimenti, riadattamenti culturali (Myers 2003: 10). Ora, però, questo processo si approfondisce, fino a toccare le due categorie fondamentali del tempo e dello spazio, due categorie che erano rimaste fino ad allora in linea di massima estranee al circuito di scambio tra le due culture e che divengono adesso per gli ebrei le categorie fondanti dell’incontro con la modernità. Il tempo, cioè l’idea di storia. Lo spazio, cioè quella di nazione. Ad essere interessate inizialmente a questo processo di trasformazione sono due aree specifiche, sia pur vaste, del mondo ebraico, quella tedesca e quella russa. Nella prima di queste due aree, il mondo ebraico intraprende, a partire dalla fine del Settecento e dall’Haskalah, un percorso di intenso rapporto con il mondo esterno che nutre e accompagna il processo di emancipazione politica. Nella seconda, il mondo ebraico, posto di fronte al muro del rifiuto dell’uguaglianza, elabora un pensiero rivoluzionario e dà alla propria identità una connotazione nazionale. L’idea di storia nel mondo tedesco, e quella di nazione nel mondo russo, sono il frutto di questi percorsi culturali.

3. Ebrei tedeschi
Molti dei protagonisti dell’ultima fase di questa cultura, quella che precede l’avvento del nazismo, da Gershom Scholem a Walter Benjamin ad Hannah Arendt, hanno parlato di simbiosi ebraicotedesca, di dialogo ebraico-tedesco, per lo più per sottolinearne il fallimento e la tragica fine nell’esplosione dell’antisemitismo nazista.
Anche molta parte della storiografia ha ripreso questa immagine di un dialogo a senso unico, di un’integrazione fallita (Traverso 1994), anche se non sono mancati gli storici che, come George L. Mosse, hanno sottolineato come quel percorso sia «divenuto parte integrante della tradizione intellettuale europea» e abbia prodotto «un retaggio unico per gli ebrei stessi e per gli intellettuali di tutta Europa» (Mosse 1995: 11). La cultura che si creò, per citare un altro importante studioso, Amos Funkenstein, fu «una ricca e vitale sub-cultura tedesco ebraica non dissimile dalla cultura ebraica alessandrina nell’antichità o dalla cultura ebraica spagnola nel Medioevo» (Funkenstein 1993: 258).
Le basi di quell’incontro sono nelle modalità stesse del percorso di emancipazione degli ebrei tedeschi, in quella cultura dell’Illuminismo tedesco, da Goethe a Lessing, a cui tanto sono stati vicini gli uomini che hanno trasformato l’ebraismo tedesco con l’Haskalah, in primo luogo lo stesso Mendelssohn. Innanzitutto, come abbiamo visto, nella creazione, fondata sulla storia, di una specifica cultura ebraica che fosse al tempo stesso tedesca ed ebraica. Questa cultura doveva essere costruita tramite un processo di crescita intellettuale e morale, di costruzione dell’interiorità, la cosiddetta Bildung, che come uno stampo ha informato i percorsi degli ebrei tedeschi nel loro ingresso nel mondo tedesco, nella loro recezione dell’identità tedesca. Era, questo dell’autoformazione, un programma che garantiva l’uguaglianza, perché la riportava alle capacità intellettuali e morali, e tutti potevano conseguirla, indipendentemente dalla loro origine o religione. E fu questo un ideale che gli ebrei tedeschi, nel loro ingresso nella classe media, nella loro emancipazione sociale, abbracciarono con entusiasmo e fiducia nelle capacità di miglioramento dell’uomo e nelle possibilità della ragione umana. Questo processo di perfezionamento culturale fu quanto gli ebrei condivisero per lungo tempo con il mondo circostante e con la borghesia tedesca, e fu ciò a cui il mondo ebraico restò fedele anche quando gli altri tedeschi cominciarono a staccarsene, per motivi complessi in cui dominante era la costruzione del nazionalismo tedesco, con i suoi ideali di bellezza puramente estetica, di forza, di primato della nazione. Il culto di Goethe, di Schiller, di Lessing continuava ad essere diffuso fra gli ebrei e ad informarne gli ideali mentre il mondo non ebraico si costruiva nuovi punti di riferimento culturale. «Man mano che il concetto di Bildung cambiava e si comprometteva con il nuovo nazionalismo, man mano che si richiedeva il conformismo invece della continua auto-educazione individuale, gli ebrei venivano sempre più isolati», scrive Mosse descrivendo un processo di lungo periodo, iniziato già con le guerre napoleoniche e la filosofia di Fichte e di Hegel, e venuto a compimento solo dopo la prima guerra mondiale (Mosse 1995: 25-26). Man mano che la storia si identificava per i tedeschi con la nazione, essa si identificava per gli ebrei con i valori della cultura tedesca, della spiritualità contrapposta al nazionalismo. Un processo destinato ad isolare gli ebrei, ma non immediatamente, non prima di aver prodotto quanto di meglio una cultura potesse dare.
Due sono i grandi momenti della cultura ebraico-tedesca: il primo, sotto l’Impero di Guglielmo II, il secondo durante la Repubblica di Weimar, tanto caratterizzata dalla presenza degli ebrei da essere definita dagli antisemiti una «Repubblica ebraica». Tra questi due momenti, la prima guerra mondiale, a cui, come abbiamo visto, gli ebrei tedeschi e la maggior parte degli intellettuali ebrei diedero, almeno inizialmente, un appoggio entusiastico. In ambedue questi momenti, gli ebrei appoggiarono con entusiasmo la modernità, l’avanguardia, il nuovo. Era anche il frutto della loro emarginazione accademica, dal momento che essi continuarono fino al 1918 ad essere esclusi dalle carriere accademiche e dagli uffici pubblici. Nel 1910 meno del 3% degli ebrei tedeschi insegnava nelle università. L’impossibilità di accedere alle università spingeva gli ebrei verso attività meno accademiche ma più aperte al nuovo: il teatro, la letteratura, il giornalismo, le arti figurative, una tradizione che essi continuarono a mantenere anche durante la Repubblica di Weimar, dopo aver ottenuto la pienezza dell’emancipazione.
In molti di questi intellettuali, l’idea del primato della cultura e della razionalità si accompagnò anche all’attenzione per correnti culturali mistiche e irrazionalistiche e al tentativo di esorcizzarle attraverso il controllo della ragione. Così Sigmund Freud nella sua analisi dell’inconscio, così Gershom Scholem,un altro grande figlio di questa simbiosi ebraico-tedesca che pur contestava, affascinato studioso del misticismo e del messianesimo ebraico. Così Aby Warburg, un grande storico dell’arte, il creatore dell’Istituto Warburg e della famosa biblioteca, studioso dei simboli e miti pagani e del loro influsso rinascimentale. L’intento di Warburg, nonostante il fascino straordinario che quel mondo esercitava su di lui, era quello di sottoporlo alla razionalità: bisognava sempre di nuovo liberare Atene da Alessandria,
scriveva. Dopo la sua morte, nel 1929, e dopo l’avvento del nazismo la biblioteca fu spostata a Londra, dove è tuttora. Nella sua cerchia operò Ernst Cassirer.
Molti di questi intellettuali passarono, o approdarono, nella sinistra marxista, sia pur con modalità molto diverse da quelle dell’ortodossia marxista. Così Ernst Bloch, che studiò il fenomeno religioso e l’utopia, così Horkheimer e Adorno, che dal 1930 diressero la scuola filosofica di Francoforte, così Kurt Eisner, un socialista kantiano che diresse la rivoluzione di Monaco nel 1918, così il giovane Lukács, hegeliano, così Walter Benjamin. Tutte figure di grande complessità e difficili da definire con una sola etichetta, come complessa era la loro identità tra cultura, politica, ebraismo, identità tedesca. E tutti, con maggior o minor fortuna, esuli costretti dal nazismo ad abbandonare la Germania.
Nell’impossibilità di fare di ciascuno di essi anche solo un sommario schizzo, mi soffermerò un poco su una figura femminile, quella di Else Lasker-Schüler, la maggiore poetessa dell’espressionismo tedesco. Else Schüler era nata nel 1869 in Westfalia, da una famiglia ebraica alto-borghese che non aveva reciso tutti i suoi legami con la tradizione religiosa. Si trasferì a Berlino, sposandosi, e dopo il fallimento del suo matrimonio divenne una figura notissima della vita bohème di Berlino, trascorrendo la maggior parte del suo tempo nei caffè dell’avanguardia, scrivendo in tedesco poesie molto ebraiche, apprezzatissime dalla critica, e frequentando tutto il mondo letterario tedesco. Sempre sentendosi esiliata, sempre in assoluta povertà, priva di casa e di mezzi, aiutata dagli amici. Nel 1910 fondò con il
suo secondo marito lo «Sturm», la più famosa rivista espressionista.
Nel 1932 ebbe il prestigioso premio Kleist, che la consacrava poetessa, ma poco dopo fu esiliata da Hitler e le sue poesie furono proibite. Si stabilì prima a Lugano, in Svizzera, poi nel 1940 a Gerusalemme dove morì nel 1945.
Il suo equivalente pittorico – scrive Giuliano Baioni – è forse Chagall che ella del resto molto probabilmente conobbe a Berlino nel 1914 in occasione della grande mostra del pittore organizzata dallo «Sturm». E di Chagall essa ha […] un modo completamente astorico di vedere e di intendere il mondo che sostituisce al reale un mondo poetico di grande coerenza favolistica, chiuso nei suoi motivi, esclusivo nei suoi simboli, elementare nei suoi mezzi e nelle sue intenzioni; un mondo che ha le sue lontane radici nel monoteismo giudaico e la sua origine storica nella situazione dell’ebraismo tedesco ed europeo nel periodo precedente la prima guerra mondiale (Baioni 1984: 20).