Williamson/Della Torre

Dopo due settimane di difese d’ufficio e progressive ammissioni imbarazzate, finalmente ieri un comunicato della Segreteria di Stato ha preso una chiara posizione sulla terribile vicenda del vescovo negazionista. Nello stesso comunicato, al punto 2, si afferma la necessità, per una completa riammissione nella Chiesa della fraternità lefebvriana, dell’accettazione completa delle decisioni del Concilio e del magistero degli ultimi Papi. E’ essenziale fermare l’attenzione e la vigilanza su questo punto, perché il clamore suscitato dal negazionismo oscura il nodo essenziale del problema, che è quello dell’esistenza di un vasto ambiente cattolico tradizionalista, spesso tollerato se non coccolato, nel quale l’antigiudaismo alligna e prospera. Su questo punto si gioca sugli equivoci, tutti si dichiarano “non antisemiti”, come lo era già il papato di Pio XI, in quanto contestava il razzismo; ma l’ostilità teologica antiebraica -quella che viene definita “antigiudaismo” – non ha bisogno del razzismo per esistere e diffondersi. La svolta decisiva contro questa tradizione è stata impressa dalla dichiarazione “nostra aetate” del Concilio, quella che in qualche modo scagionava gli ebrei di oggi dalla colpa del deicidio e “deplorava” (sic) l’ostilità antiebraica. A questa dichiarazione sono seguiti i tanti documenti e gesti positivi che conosciamo, sempre rifiutati dai tradizionalisti. Al punto attuale della discussione, i punti aperti sono: 1. come è stato fatto per il negazionismo deve essere chiaro che – se si vuole mantenere un dialogo rispettoso- non c’è posto non solo per l’antisemitismo ma anche per l’antigiudaismo e che i documenti specifici su questo tema debbano essere accettati esplicitamente, senza generalizzazioni; 2. ci deve essere una coerenza tra documenti e comportamento, evitando incidenti ed equivoci continui che creano sfiducia; 3 infine, last but not least, anche se tutti i documenti sono un enorme passo avanti, le difficoltà sostanziali rimangono; vorrei ricordare come proprio all’indomani del nuovo “sabato nero” dell’annuncio della revoca della scomunica, nell’angelus domenicale, il Papa, parlando della conversione di Paolo, ha detto che in realtà di vera conversione non si trattava perché Paolo era un ebreo credente e “non dovette abbandonare la fede ebraica per aderire a C. “Togliamo il negazionismo, il deicidio, se ci riusciamo anche l’antigiudaismo, ma il problema di fondo è sempre lo stesso.

Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

Nell’articolo (datato 19/1/2009, 2427 parole) “Qualche cosa da dire su Gaza” per “Italianieuropei”, febbraio 2009, Stefano Levi Della Torre usa la parola “massacro” dieci volte, la parola “terrorismo” tre volte, la parola “pace” tre volte. La parola “Egitto” non appare mai, e la parola “manipolazione” nemmeno. Queste statistiche lasciano intuire il tono e il contenuto del testo: un’analisi ferocemente e unilateralmente critica del comportamento di Israele nell’ultimo mese di fronte a Hamas e alla popolazione di Gaza. Occorrerebbe più spazio per dare una risposta ponderata a Stefano, che pure non manca di notare aspetti positivi come la decisione della Corte Suprema di Israele di respingere la proposta di escludere dalle elezioni del 10 febbraio due partiti arabi accusati di attività sovversive. Riguardo all’insistente accusa di “massacro”, a Gaza non vi è stata né un’esercitazione a fuoco né una spedizione punitiva. Vi è stata invece un’operazione militare in risposta a un’azione di guerra dichiarata con la cessazione unilaterale della tregua da parte di Hamas. Questa interpretazione non è solo di Israele ma anche dell’Egitto che, esattamente come Israele, ha un confine con Gaza che potrebbe essere aperto a piacimento. Poco importa se i 20 mila uomini di Hamas armati di tutto punto siano chiamati esercito, milizia, o banda. È gente che spara, depone mine, lancia colpi di mortaio, razzi e missili per uccidere senza distinzione militari e civili israeliani, seguendo i dettami dell’Articolo 7 dello Statuto. Secondo le fonti non verificate dell’Organizzazione Palestinese per i Diritti Umani, la durissima operazione israeliana avrebbe causato 1.285 morti. Di questi, 1062 sarebbero “civili” e dunque 223 dovevano essere “armati”. Dei 1062 “civili”, 281 sarebbero “bambini”, categoria che fino a prova contraria include tutte le persone al di sotto dei 18 anni in parte atte a svolgere attività bellica, e dunque 781 dovevano essere “adulti”. Dei 781 “adulti”, 111 erano donne, e dunque 670 erano uomini. Una sproporzione fra le vittime adulte dei due sessi nel rapporto di 6 a 1 indica chiaramente che Israele non ha voluto colpire indiscriminatamente la popolazione civile, che è equamente divisa fra i due sessi, ma ha cercato di individuare uomini attivamente coinvolti nel conflitto. L’ammontare reale di civili palestinesi uccisi è grave e ha suscitato emozione, dolore e proteste nella società israeliana, ma va letto in un contesto di guerra combattuta. Nell’operazione israeliana a Jenin, dopo il massacro di 30 Israeliani riuniti in preghiera la notte della Pasqua ebraica del 2002 in un albergo di Netanya, si parlò prima di 5.000 morti palestinesi, poi di 500, e infine ne furono accertati 50 – insieme a 23 soldati israeliani morti. Manipolare i dati e costruirvi sopra un’oscura mitologia può essere una legittima operazione di guerra da parte di chi combatte e dei loro alleati. È farsi manipolare che è poco dignitoso.

Sergio Della Pergola, demografo Università Ebraica di Gerusalemme