Israele al voto 3 – Sergio Della Pergola “I grandi rischi di un’eccessiva frammentazione”

Con la saggezza del giorno dopo, ma anche con una buona dose di necessaria autocritica, le elezioni in Israele dimostrano, in primo luogo, l’incongruenza di un metodo elettorale che garantisce massima rappresentanza e minima governabilità. L’Italia lo ha capito, ha cambiato metodo, e si è dotata (nel bene e nel male) di governi di legislatura. La società israeliana è complessa, ma gli elettori invece di nominare un parlamento in grado di decidere hanno prodotto un manuale di sociologia delle popolazioni, con dodici partiti nessuno dei quali raggiunge un quarto dei seggi in palio. Con millimetrica precisione ha avuto ragione chi aveva previsto che la conclusione non inequivocabile della campagna contro Hamas avrebbe premiato la destra. Ma il naufragio della sinistra supera ogni previsione. Sul risultato elettorale hanno inciso in misura non marginale anche quelle voci esterne che contestano e isolano Israele e gli ebrei, spingendoli ad arroccarsi su posizioni di autodifesa. Esempi sono quell’inquietante caricatura Ahmedinejad, l’incendio delle bandiere nelle piazze in Europa e in America Latina, il prete che dice che Auschwitz era un luogo di disinfestazione, l’analista che suggerisce che il Giorno della Memoria venga celebrato con maggiore discrezione perché potrebbe causare qualche rimorso agli Europei, il giudice spagnolo che chiama in tribunale l’ufficiale israeliano che ha combattuto i terroristi a Gaza. Ma anche l’erosione dell’identificazione degli Arabi israeliani con lo stato di cui sono cittadini. Che fare? Lunghe settimane di tortuose trattative ci separano dal voto di fiducia al nuovo governo. Le alternative politiche sono essenzialmente tre: una coalizione tutta a destra, basata su sei partiti che si sono attaccati ferocemente durante la campagna elettorale, che renderebbe Israele oggetto di pressioni internazionali e ulteriore isolamento. Un governo a rotazione fra Bibi Netanyahu e Tzipi Livni, replica dello scambio Peres-Shamir, che riporterebbe la politica israeliana indietro di 25 anni. O un’ampia coalizione di programma per la legislatura (e allora conta meno chi sia il premier) con Kadima, Likud, Laburisti e una formazione religiosa, che lancerebbe un segnale di responsabilità verso il Paese e verso il mondo. E poi, è quasi inevitabile, si va a nuove elezioni anticipate. Sperabilmente con una diversa formula elettorale.

Sergio Della Pergola, demografo, Università Ebraica di Gerusalemme