La Costituzione italiana, una garanzia di democrazia
Si è svolto nella sala della Protomoteca in Campidoglio a Roma il convegno Dalla Costituzione della Repubblica Romana alla Costituzione della Repubblica italiana, promosso dalle associazioni laiche di Roma in occasione del 160° anniversario della Repubblica Romana.
Il convegno, realizzato con l’alto patronato del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e con il patrocinio della Regione Lazio e della Provincia di Roma è stato organizzato dal presidente di Democrazia laica, Enrico Modigliani. Sono intervenuti il Presidente emerito della Corte Costituzionale, Mauro Ferri, (nella foto a destra insieme a Enrico Modigliani, al centro e Bruno Di Porto a sinistra) il professor Stefano Rodotà, docente di Diritto civile all’Università di Roma La Sapienza, il professor Bruno Di Porto, docente di Storia contemporanea all’Università di Pisa.
“Centosessanta anni fa, proprio in questi giorni, ha affermato il Consigliere comunale Paolo Masini che ha fatto gli onori di casa, nasceva una delle avventure più emozionanti della democrazia italiana, il 9 febbraio 1849 venne proclamata la seconda Repubblica romana”. La Repubblica Romana fu un esperimento fondamentale, se pur drammaticamente breve, che gettò le basi della futura democrazia italiana.
Intervento del professor Bruno Di Porto in occasione del convegno Dalla Costituzione della Repubblica Romana alla Costituzione della Repubblica Italiana
Celebriamo la Repubblica Romana, proclamata e avvenuta ben 160 anni fa, come precedente ideale della Repubblica Italiana, sognata da Mazzini, Garibaldi e tanti patrioti. Sono tanti centosessanta anni, ma ho lo sfrontato coraggio, nel breve tempo del mio discorso, di riportarvi ancora un po’ indietro nel tempo, in brevi cenni, alle origini della moderna democrazia italiana e del nostro Risorgimento, per necessità di contesto. Senza i contesti non si fa storia. Vi porto verso la fine del Settecento. C’era in Italia e nell’Occidente una tradizione democratica e repubblicana, che veniva da lontano, ma che, almeno da noi, scorreva sotterranea. L’Italia che contava erano l’austriaca in Lombardia, la Monarchia sabauda, la Monarchia borbonica, il Granducato di Toscana, il Papa. L’Austria in Lombardia e i piccoli regni nella seconda metà del ‘700 fecero parecchio, impostando riforme ed anche sciogliendo in parte gli stati dalla tutela ecclesiastica. Ci fu un fiore di intellettuali, di esperti, di riformatori, che assecondarono la loro opera, in un cammino di modernità. Lungo questo cammino avvennero la rivoluzione americana, più lontana, e la rivoluzione francese, molto vicina, che comunicarono una grande scossa ideale, finché gli sviluppi dirompenti della rivoluzione francese preoccuparono le monarchie, le indussero a fermarsi e ad irrigidirsi.
Già da prima una minoranza intellettuale e borghese di riformatori illuministi si proiettava in avanti rispetto ai troni con cui collaborava o a cui guardava con un certo favore per quanto realizzavano. La Massoneria, grande novità del secolo con remote ascendenze di tradizione e di mito, costituiva un ambiente di incubazione e di incontri nella proiezione in avanti rispetto ai monarchi, che in parte erano loro stessi adepti o simpatizzanti. Nelle logge massoniche i riformatori si evolvevano in rivoluzionari. Finanche ecclesiastici, specie del basso clero, nutrivano aspirazioni progressiste e in campo cattolico il fermento in avanti era specialmente dovuto alla corrente giansenista, che mirava alla riforma e pulizia interna della Chiesa in una società migliore. Dove le monarchie si fermarono, apprestando le difese dalla minaccia rivoluzionaria, i giacobini e i giansenisti proseguirono, cospirando o preparandosi ad un nuovo ruolo, in contatti con la Francia, dove si formò una emigrazione politica italiana. Viceversa emigrati francesi vennero in Italia. La Roma papale fu asilo di migliaia di preti refrattari alla costituzione civile del clero. La grande paura della rivoluzione destava un clima di reazione monarchica e cattolica, in suggestioni apocalittiche di fronte a novità dissacratorie e sconvolgenti. Cresceva il fervore di devozione, si propagavano apparizioni miracolose. Non importa che fossero illusorie o mistificatorie. Sono fenomeni che fanno parte della storia, insieme con le accese prediche, con gli arresti, con violenze antigiacobine, di cui gli ebrei pagarono un costo di paure, di aggressioni, di saccheggi, insieme agli altri elementi e ambienti sospetti. Si alzarono le prime forche, il giovane pugliese Emanuele De Deo, cospiratore antiborbonico, è nel 1794 un protomartire del Risorgimento. Le masse contadine stavano male, ma la loro mentalità dipendeva dal clero e le riforme in atto non le favorivano, se non altro perché scalfivano la risorsa degli usi civici. La cultura illuministica era cittadina, lontana dalle masse, che erano spinte da esigenze elementari e da una passionalità facile all’aggressività. La monarchia borbonica e il clero reclutò contadini e lazzaroni, che contro la rivoluzione dilagante in Italia si mossero con un impulso reazionario di classe: “Allu suono dello gran cascio viva sempre popolo bascio. Allu suono delli mandolini sempre morte alli giacobini”.
I giacobini non erano dal canto loro fatti solo di ragione, anche in loro albergavano slanci passionali, con grandi speranze per l’avvenire dell’Italia e dell’umanità. Nel 1793, in una lettera di Pietro Verri compare la grande parola, il termine che contrassegna l’epoca, in cui la Repubblica Romana si incentra, Risorgimento. All’arrivo dei francesi nacque in Reggio Emilia il Tricolore, il giornalismo ebbe un salto quantitativo e qualitativo.
Roma non fu da meno. Il regime papale comprimeva il fermento, che sgorgò a maggior ragione. Alcuni nomi di innovatori romani: Gian Vittore de’ Rossi, in Arcadia Nicio Eritreo, infatti anche la letteraria Arcadia ebbe parte nel nuovo sentire, viaggiò e influì sul liberalismo inglese; Giambattista Agretti, altro arcade, giurista perugino; il marchese Pio Camillo Bonelli; lo scultore Giuseppe Ceracchi, personaggio eminente, viaggiò mezzo mondo, fece neoclassici busti a regnanti e grandi della terra, gli rovinarono lo studio in via del Corso, esortò in Parigi alla liberazione dell’Italia, fu uno dei maggiori esponenti della prima Repubblica Romana del 1798, vicinissimo a Napoleone generale dell’armata in Italia, lo sfidò invece quando si fece imperatore. Rifiutò sdegnoso l’offerta di grandi onori, ordì un attentato e finì decapitato; l’abate Claudio Della Valle, sacerdote progressivo, giacobino evangelico, esponente della Repubblica, premuroso verso gli ebrei di Roma di cui sopravvalutò il numero.
La Repubblica fu proclamata il 15 febbraio, stesso mese di quella di Mazzini, all’ombra dei francesi liberanti ma occupanti, che con le pesanti requisizioni e i furti di opere d’arte compromisero nell’opinione pubblica l’impresa democratica. I giornali parigini parlavano di Roma, ora idealizzando i fieri romani, ora prendendoli un po’ in giro, come quando videro aumentare i matrimoni per l’esenzione che procuravano dal servizio militare: i romani, ironizzò un commentatore d’Oltralpe, pensavano più a perpetuare la specie umana che a difendere la repubblica. Ma ci fu anche un tenore di serietà e si pensò al collegamento con più vasta area territoriale. Rappresentante di Ancona, che aveva fatto parte dello stesso Stato Pontificio, in Roma repubblicana fu Ezechia Morpurgo, membro con altri due ebrei della Municipalità democratica nel capoluogo marchigiano.
La repubblica fu abbattuta dai borbonici al suo settimo mese. I francesi poi vinsero i borbonici, arrivarono a Napoli, sorse la Repubblica Partenopea, anche questa crollò. Poi i francesi tornarono, ma Napoleone, sintetizzando passato e presente, riforme e principato, si fece lui sovrano riformatore, anzi imperatore demiurgo. All’Impero napoleonico, caduto nel 1814, successe la Restaurazione in Italia e in Europa.
La democrazia riprese a cospirare. Funzionale alla preparazione della ripresa fu, in questa fase, la Carboneria e poi la Giovine Italia di Mazzini. Entrambi, Carboneria e Mazzinianesimo, furono presenti nella Roma papale, sfidando arresti, processi, pene capitali (Targhini e Montanari nel 1825). Anzi, progredendo nell’Ottocento, il movimento democratico romano riuscì a penetrare tra i ceti umili, costituendo affiliazioni nei vari rioni, specie in Regola, Trastevere e Borgo. Popolanti erano chiamati gli innovatori, che propagavano il movimento tra i popolani, in lotta serrata contro elementi reazionari, che a loro volta mobilitavano le masse. Un ingrediente antico e collaudato nell’eccitazione dei popolani contro ogni prospettiva di riforma, sia pure nell’ambito pontificio, era l’odio agli ebrei. Si cominciava con le satire, come quando Leone XII concesse un piccolo allargamento del recinto del Ghetto: “Papa Leone è diventato matto, restrigne li cristiani, allarga er ghetto”. A chiudere possibili spiragli di miglioramento per gli ebrei si aggiungevano gli impedimenti che venivano da categorie economiche timorose di concorrenza.
Ebbene, una delle cure dei capipopolo democratici, quando fu eletto Pio IX e parve aprirsi una nuova epoca, fu l’opera di affratellamento dei rioni popolari con gli ebrei. I capipopolo, tra cui eccellevano il carrettiere Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio, e uno chiamato Mecoccetta, organizzavano manifestazioni di incontro, con esaltanti bevute di vino, tra i diversi rioni e vi immisero il Ghetto come genuino quartiere popolare di Roma. Sicché alla festa di Pesach, la Pasqua ebraica, del ’48, i popolani di una Roma democratica irruppero a demolire i muri del Ghetto, prima ancora che lo facessero gli addetti comunali della Roma papale, straordinariamente cangiante.
1848, Carducci lo chiamò l’Anno dei portenti. Un portento fu un papa che benediva l’Italia, che accordava riforme, che arrivò a riconoscere diritti civili agli ebrei. L’abate Gioberti aveva vaticinato un papa illuminato da porre alla presidenza di una Confederazione italiana, conciliando Cattolicesimo e Libertà. Il satirico Giusti lo aveva preso in giro, scherzando su un fantomatico Prete Pero, che sarebbe salito al trono pontificio per far contento Gioberti. Nel ’46 fu letto papa il sorridente vescovo di Imola dalla larga faccia, non Pero, ma Giovanni Maria Mastai, che concesse una larga amnistia (invero non era la prima volta) e accettò passi di progresso e riforme. Tutti erano entusiasti. Si disse che l’Italia era diventata un pollaio, tanti erano i pigolanti Pio Pio. L’ambasciatore turco girava con una medaglia di Pio nono sul petto. In Ghetto il gran rabbino Hazan compose un inno per Pio. Il rabbino marchigiano Maroni lo lodava ed era naturale quel po’ di euforia dopo tante tenebre. Samuele Alatri, Er Papa der Ghetto, buon diplomatico, cercava di allargare la strada delle concessioni. Tanto da poter parlare, per quell’intermezzo, di una sorta di neoguelfismo ebraico. In fondo, da secoli e secoli, nell’interrotta presenza sul Tevere, si era convissuto coi papi: l’umiliata presenza giudaica per i papi serviva a dimostrare la verità cattolica, ma gli ebrei la vivevano come possibilità di sussistere nella fedeltà a se stessi e al Santo e Benedetto.
La tattica delle democrazia era invero di applaudire il Papa per spingerlo più in avanti, prevedendo che si sarebbe giunti alla svolta chiarificatrice. Mazzini inviò Pio una lettera aperta, per esortarlo a sposare interamente l’Italia e ad accordare la Chiesa con i nuovi tempi. Punto di particolare audacia fu l’imperativo di Mazzini a Mastai “Abbiate fede!”. Fu la prima volta che il Vicario di Cristo se lo sentì dire da un laico. La seconda fu quando Pio XII fermò un irrefrenabile Indro Montanelli, dicendogli “Guardi che il Papa sono io”.
La svolta cominciò durante la guerra di indipendenza, allorché truppe partirono dallo Stato Pontificio in appoggio al Piemonte, e la cattolica Austria si risentì col Papa, troppo italiano, sicché Pio IX dovette precisare che egli amava tutti i popoli cattolici con pari studio di paternale amore. Ciò era logico, ma poneva la contraddizione tra l’essere il capo spirituale della Chiesa cattolica e il sovrano di uno Stato italiano, addirittura candidabile ad una presidenza della Confederazione italiana. Le riforme impostate cominciarono a segnare il passo. Il governo presieduto dall’egregio giurista carrarese Pellegrino Rossi scontentava i conservatori perché relativamente avanzato e i democratici perché troppo ritardante i mutamenti richiesti. Il nodo fu tragicamente tagliato, il 15 novembre, dall’assassinio di Rossi, di cui fu incolpato Luigi Brunetti, figlio di Ciceruacchio. La situazione divenne davvero grave e gli opposti fronti stavano per confliggere duramente.
Pio IX non si sentì più sicuro, non riusciva più a far governare, perse ogni fiducia nella possibilità di accordarsi con il movimento nazionale italiano. E preferì andarsene a Gaeta, ospite del re di Napoli, per essere riportato in sede da un castigamatti esterno Il cattolico Manzoni disse che il Papa, dopo aver benedetto l’Italia, la mandò a farsi benedire. Pio, da Gaeta, richiese l’intervento armato a Napoli, all’Austria, alla Francia e alla Spagna, adducendo che queste potenze erano, per la loro posizione geografica, in grado e in debito di intervenire per riportare l’ordine a Roma e consentirgli di tornare ad esercitare il Sacro Ministero. Metteva in gara i quattro candidati. Francia e Spagna, le potenze maggiori, erano emule, rivali, gareggianti nell’intervenire, con mire di egemonia sull’Italia. L’Austria aveva già occupato militarmente Ferrara.
Da Roma i moderati invitarono il Papa a tornare, cercando di rimettere in piedi la soluzione di uno Stato Pontificio a regime costituzionale. Lo fece, con autorevolezza e delicatezza, Terenzio Mamiani, ma la democrazia non stette ad attendere. Si indissero le elezioni per una Assemblea Costituente, che si riunì il 5 febbraio 1849 e che quattro giorni dopo votò la proclamazione della Repubblica. Furono giorni di serrate discussioni. Carlo Bonaparte, principe di Canino, cugino democratico di Luigi Bonaparte, divenuto presidente della Repubblica Francese e poi imperatore, fece da sinistra un cavalleresco elogio del collega Mamiani, dicendo che se non era riuscito lui a riconciliare il Papa con la causa italiana, non ci sarebbe riuscito più nessuno. Alcuni pensavano che l’Assemblea dovesse fare appello, come diceva in Toscana Montanelli, all’Assemblea Costituente italiana, non affrettando una costituzione romana. Il medico e scrittore Pietro Sterbini, esponente liberale romano, passato per l’esperienza carbonara del ’31, invitò a ponderare bene se il popolo fosse davvero pronto a sostenere la repubblica, a battersi per essa; altrimenti era meglio contentarsi del fatto, senza presumere con il nome impegnativo di repubblica. La riposta gli venne dalle gallerie, dove i cittadini presenti proruppero nel grido di “Viva la Repubblica” e allora anche lui si mostrò ben disposto, mentre il torrenziale principe di Canino chiedeva cosa si aspettasse: “Non sentite dalla terra scottante il grido degli antenati romani che chiedono la Repubblica in Roma?” Il 9 fu solennemente proclamata. L’Assemblea elesse un Comitato esecutivo, formato da Carlo Armellini, Mattia Montecchi (entrambi romani) e l’abruzzese Aurelio Saliceti. Il Comitato nominò, a sua volta, i ministri per affari particolari. In Roma repubblicana accorsero patrioti da ogni parte d’Italia ed anche da fuori d’Italia. Tra gli stranieri era l’ebreo svedese Carlo Lamm, mentre ebrei italiani accorsero da altre regioni, tra loro il poeta e giornalista Giuseppe Revere, e il medico Giacomo Venezian, che cadrà alla difesa del Vascello. In una sua lettera, il patriota caduto per l’Italia, aveva manifestato di credere anche nella nazionalità ebraica. Un altro caduto ebreo è Ciro Finzi. Ebreo romano era il medico Moisè Esdra, che cadde combattendo diciassette anni dopo a Custoza, nella terza guerra di indipendenza. Leone Carpi e Salvatore Anau furono deputati alla Costituente.
Il ligure Goffredo Mameli, l’autore dell’inno nazionale, destinato a cadere nella difesa, inviò a Mazzini il telegramma di tre parole Roma Repubblica Venite, ma l’apostolo dell’unità si trattenne in Toscana per convincere quel governo provvisorio a fondere la regione in repubblica con Roma. Vi si oppose l’ambizioso Guerrazzi, ma vi erano, in effetti, problemi di integrazione tra le economie dei due stati. Nondimeno fu chiusa la dogana tra lo Stato romano e il Granducato, quella dogana di cui, nei viaggi in macchina tra Pisa e Roma, vedo ancora l’antico fabbricato, presso la targa di confine tra le due regioni della mia vita.
Mazzini entrò in Roma, da pellegrino suo cultore, in indicibile commozione, per Porta del Popolo, il 5 marzo e il 6 entrò nell’Assemblea, accolto da grande applauso e avviato a ruolo di statista. Raccomandò l’unità di intenti e di evitare l’opposizione preconcetta al governo di una dritta contrapposta alla sinistra o di una sinistra contrapposta alla dritta. Carlo Bonaparte osservò che in qualunque assemblea questa partizione di manifesta. Mazzini, molto sensibile alla questione sociale, sostenne ogni provvedimento a favore dei ceti subalterni, ma indicò la priorità assoluta nella guerra per la difesa della Repubblica e per un suo ruolo di punta nella ripresa del conflitto con l’Austria, che il 23 marzo sconfisse il Piemonte a Novara. Si preoccupò quindi della preparazione militare, in cui il ruolo di esperti e condottieri toccava al generale Pietro Roselli, il generale Giuseppe Avezzana, all’eroe Giuseppe Garibaldi, a Carlo Pisacane, eroe di Sapri. L’Assemblea chiamò Mazzini al governo, con Armellini e Aurelio Saffi, nel Triumvirato, che sostituì il precedente Comitato esecutivo.
Si elaborava frattanto la Costituzione, nella quale non entro, perché ne parleranno i due illustri costituzionalisti Mauro Ferri e Stefano Rodotà. Mi limito a dire della garanzia data al Pontefice per l’esercizio del suo ufficio spirituale. Mentre in precedenza si erano chieste al Papa le garanzie di un governo civile, ora era La Repubblica a darle al Papa, che però non le accettava e attendeva solo di tornare in Roma, portato dall’intervento delle potenze, e riassumere il duplice ruolo, spirituale e temporale. L’orientamento costituzionale della Repubblica era separatistico in fatto di rapporti tra Stato e Chiesa, ma Mazzini era invece convinto della stretta congiunzione tra politica democratica e religione, nel noto suo binomio “Dio e Popolo”. Personalmente Mazzini era un postcristiano, che riconosceva però il ruolo storico del Cristianesimo come religione prevalente nel paese, importante per la presa della Repubblica sul popolo, e da questa sua visuale derivò una coazione sui canonici del Capitolo Vaticano, perché celebrassero, nell’aprile, un Te Deum per la Repubblica, arrivando il Triumvirato a multarli per non avere essi accettato. Io, mazziniano, condivido la sensibilità religiosa dell’apostolo, ma non davvero questo provvedimento, duramente giurisdizionalistico.
La costituzione romana realizzò la piena libertà per gli acattolici col dire, in brevità essenziale, all’articolo 7, che dalla credenza religiosa non dipende il godimento dei diritti civili e politici. Gli ebrei di Roma vissero allora la seconda emancipazione, che presto venne meno con la caduta della Repubblica, e dovettero attendere altri ventuno anni nell’oppressione sotto Pio nono, con il particolare sopruso del rapimento del fanciullo Edgardo Mortara, non l’unico nel genere di antica e consacrata prassi.
Io, che vi parlo, sono un testimone del non provato, per dirla con il titolo di un interessante libro-inchiesta di Raffaella Di Castro sui nipoti di noi ebrei perseguitati dal nazifascismo (Carocci, 2008). Sono testimone diretto della persecuzione del Novecento, ma sono testimone del non provato della Repubblica Romana, perché la mia nonna paterna, nonna non bisnonna, Costanza Piattelli in Di Porto, nacque il 19 aprile 1849, nell’alba della libertà, in piena Repubblica Romana. Ella visse ragazza sotto il restaurato regime pontificio e una sera prese una ramanzina, perfino si diceva in famiglia uno schiaffo, da un gendarme papalino per essere rientrata in ritardo nel Ghetto. Liberata a ventuno anni, volle godersi Roma a pieni polmoni e quando funzionò il tranvai prese l’abitudine di fare tutto il giro della circolare. Un suo detto era Chi vo mejo de Roma se la vada a cercà.
Torno dalla cronaca familiare alla storia politica. Mazzini voleva la guerra con l’Austria, non con la Francia, dove peraltro c’erano i simpatizzanti per Roma repubblicana. Ma a Parigi presero il sopravvento forze moderate e conservatrici, con forte peso dell’opinione cattolica tradizionale, e il principe presidente preparò la spedizione di Roma, in contrappeso all’Austria. Mazzini ottenne un apparente compromesso con l’inviato de Lesseps, ma la trattativa fu superata dallo sbarco, il 24 aprile, a Civitavecchia. Luigi Napoleone, con cui Mazzini aveva avuto in passato momenti di intesa, lo deluse del tutto e divenne il gran nemico. Il professor Alberto Maria Ghisalberti, quando ero studente, in vista della laurea con lui, mi assegnò un lavoretto preparatorio, che pubblicai a puntate sulla “Voce Repubblicana”, dal titolo Mazzini e Luigi Napoleone Bonaparte. Sono, anche per questo riguardo, testimone del non provato. Principale assistente di Ghisalberti era Vittorio Emanuele Giuntella, cattolico democratico, studioso del Settecento romano e della Repubblica Romana. Con lui celebrammo, insieme, qui in Campidoglio, il centenario della liberazione del Ghetto. Disse che il nonno aveva pianto alla caduta papale, io ricordai mia nonna, i nipoti si abbracciarono nella comune libertà e nel dialogo delle due fedi.
La repubblica si batté valorosamente ma fu travolta. L’idea repubblicana non morì, continuò in un filone minoritario ma duraturo del più largo fronte democratico, che comprendeva i radicali, in accettazione condizionata della Monarchia, e la Sinistra costituzionale, giunta al governo nel 1876. Un filone crescente della democrazia perveniva al socialismo e delle punte impetuose all’anarchismo. Venne poi maturando il movimento cristiano democratico.
L’idea repubblicana è tornata a splendere in gran dimensione nella rovina della seconda guerra mondiale, voluta dal fascismo e condivisa dalla Monarchia, fino a trionfare nella rinascita democratica dell’Italia dalle tenebre della dittatura. La Repubblica italiana si diede una organica e nitida Costituzione, che spero non sia troppo modificata, se qualche modifica si dovesse fare. Teniamocela stretta, teniamocela cara.