Kant, Lévinas e la stretta via per conquistare la pace

La guerra? Un rimedio inevitabile, il farmaco più o meno amaro di una umanità periodicamente malata. Questa sembra essere, oggi più che mai, la concezione quasi ovvia. E la pace, d’altra parte, continua ad essere definita in negativo, come una sconfitta temporanea della guerra, una rivalsa provvisoria dell’etica sulla politica; perciò non potrebbe mai essere raggiunta in un tempo futuro, ma solo perseguita all’infinito. Anche Kant, che scrive sulla “pace perpetua”, vede il male come condizione del bene, la guerra come condizione della pace.
Il “pacifismo” non fa eccezione e pensa sempre la pace come rifiuto della guerra – un rifiuto che appare ingenuo e volontaristico, perché alla volontà di potere che afferma la guerra oppone una volontà (non meno violenta) di potere che afferma la pace. È questo lo svantaggio del pacifismo: non uscire dal circolo per cui si cerca la pace preparando la guerra.
Ma si può pensare altrimenti? Il pensiero ebraico più recente ha cercato di rispondere a questa domanda che, dopo Auschwitz, ha assunto un rilievo del tutto diverso. Perché la Shoah, il baratro che si apre tra le due grandi guerre del Novecento, ha mutato l’esperienza e il concetto di “guerra” che è divenuta “guerra totale”. L’annientamento del popolo ebraico ha mostrato – per Lévinas – che non c’è più un “Me al di là della guerra”. Nessuno sfugge più alla furia sterminatrice della nuova guerra totale e totalizzante.
Si dischiude allora un varco? Si apre una via d’uscita dalla logica totalitaria della guerra che, nella sua tragicità, ha ritmato la storia dell’occidente? Basterà capovolgere la prospettiva, pensare cioè che la pace viene prima della guerra, per scoprire che non è l’io, ma è l’altro a portare al di là della guerra. Non è la preoccupazione per me, ma è la preoccupazione per l’altro il gesto etico dell’evasione e dell’esodo. Il che vuol dire anche che la pace non va rinviata ad una fine di là da venire. Il circolo si spezza e la guerra è interrotta da una pace altra, una pace più antica della guerra e del suo ordine: non la pace della non aggressione, ma la pace che non è indifferente alla differenza dell’altro.
In questa torsione dell’io verso l’altro si compie ogni volta, nel suo incondizionato valore etico, l’obbligo della Torah: “non ucciderai”.

Donatella Di Cesare, filosofa