Carlo Levi: con un pennello contro la barbarie

Dipingeva dappertutto: sulle tele ma anche sul compensato, su tavolette e perfino su pezzi di cartone. La pittura è stata il primo amore di Carlo Levi (1902-1975), che firmò la prima “opera” a tredici anni e non abbandonò mai i pennelli nonostante la fervida attività letteraria e giornalistica che l’avrebbe reso notissimo, in particolare per il romanzo autobiografico Cristo si è fermato a Eboli (pubblicato da Einaudi nel 1945). Due magnifiche occasioni per approfondire il mondo pittorico di Levi sono offerte dalle mostre allestite quasi in contemporanea dal Museo Ebraico e dalla Fondazione Carlo Levi. La prima, Paura della libertà, presenta venticinque quadri, più lettere, disegni e documenti eseguiti per lo più negli anni Trenta, che testimoniano soprattutto l’impegno antifascista dell’intellettuale torinese, la sua inesausta, generosa e rischiosa attività di militanza politica e civile, il suo sforzo di non perdere di vista coscienza e umanità anche nei momenti più bui, dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali, lo scoppio della guerra e ancora durante «il dì della sventura » dall’8 settembre.

Ma come si può opporsi alla barbarie con un quadro ? Levi e i suoi compagni torinesi del “Gruppo dei Sei” (Gigi Chessa, Nicola Galante, Francesco Menzio, Jessie Boswell, Enrico Paolucci), accompagnati dai critici Lionello Venturi ed Edoardo Persico, avevano imparato a farlo molto presto, negli anni Venti, rifiutando la retorica monumentalista e il conformismo dell’arte di regime e dedicandosi invece a colloqui intimi con oggetti, cose, situazioni quotidiane, impregnate del gusto e delle atmosfere del postimpressionismo francese, che Levi aveva scoperto nel corso dei numerosi viaggi a Parigi (il primo nel 1925).

Sono opere di questo periodo, il meno noto dell’attività dell’artista, quelle esposte alla Fondazione Levi a partire dal 5 marzo. Nature morte, interni e soprattutto bellissimi ritratti, come quello della sorridente sorella (1926), dalla pennellata pastosa e una luminosità molto parigina, fresco di restauro da parte dell’Istituto Centrale. La mostra romana presenta infatti opere “salvate” dall’intervento conservativo e in parte ancora inedite, che fanno nuova luce su quel momento cruciale in cui Levi passa dall’astro del mastro e amico Felice Casorati, alla libertà nel segno e negli accostamenti cromatici appresa dallo studio della pittura francese d’inizio secolo e dall’amatissimo Modigliani. Quadri che inoltre raccontano di volti e di persone che accompagnano l’artista in quegli anni difficili ma fervidi, quando Levi, oltre a lavorare e partecipare alle mostre più importanti (dalla Quadriennale di Torino alla Biennale di Venezia), si laurea in medicina (nel 1924), collabora alla “Rivoluzione Liberale” di Gobetti, frequenta Saba, Persico, Passerin d’Entrèves, Brosio e Monti a Torino e fa la spola con Parigi.

Tutte cose che sarebbero presto diventate impossibili: al brusco giro di vite politico dei primi anni Trenta Levi reagisce partecipando alla fondazione di “Giustizia e Libertà” insieme a Rosselli, Salvemini e altri. Segue e il primo arresto nel 1934 e di lì a poco l’esilio in quel meridione dimenticato dalla storia, dove la gente scongiurava lupi, idoli e fattucchiere e dove per restare solo Levi era costretto a sdraiarsi in una fossa scavata al cimitero e da lì, guardando il cielo, finiva per addormentarsi.

Carlo Levi. Il prezzo della libertà, Museo Ebraico, Via Valdonica 5, Bologna, fino al 5 aprile, 10-18; venerdì 10-16; sabato chiuso.

Carlo Levi. Dipinti restaurati, Fondazione Carlo Levi, Via Ancona 21, Roma, dal 5 marzo al 26 giugno, 9-13 tranne domenica.

Martina Corgnati, docente di Storia dell’arte contemporanea all’Accademia Albertina di Torino