ebraismo/Israele

Di solito la storia è scritta dai vincitori. L’ebraismo -almeno fino a pochi anni fa – è un’eccezione a questa regola, perché il suo punto di vista è raramente quello del vincitore (nel senso politico-militare, non quello morale) e la sua visione delle cose è dalla parte di chi subisce i colpi invece che darli. La storia dell’uscita dall’Egitto (“fummo schiavi…”) è tutta in questa direzione. Una curiosa e interessante conferma di questa posizione è in un tema di grande attualità, quello delle ronde. Premesso che la Torà chiede la tutela dell’ordine pubblico (“metterai giudici e poliziotti in tutte le tue città”, Deut.16:18), c’è anche il punto di vista di chi le ronde le subisce. Per due volte nel Cantico dei Cantici (3:3 e 5:7) le “guardie che girano per la città” trovano la donna che disperata si aggira di notte. Il racconto lo fa la donna. La prima volta c’è solo una domanda, la seconda la riempiono di botte. Chi è questa donna, secondo la spiegazione tradizionale? Il popolo d’Israele. E chi sono le guardie? Qui i commenti si divertono; la prima volta sono personaggi illustri e positiivi, come Mosè, Aron, Ezra, Nehemia, la seconda i babilonesi di Nabuccodonosor, quelli che distruggono il Tempio. Insomma le ronde sono buone o no? Dipende.

Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

Sembrava destinata a un’alquanto sonnolenta seduta del governo Olmert, ormai in fase di smobilitazione, la presentazione del Rapporto annuale dell’Istituto per la Pianificazione di una Politica per il Popolo Ebraico (JPPPI) sulla situazione dell’ebraismo mondiale. Il JPPPI raccoglie a Gerusalemme un gruppo indipendente di uomini e donne, ricercatori universitari, ex-funzionari dello Stato, dirigenti in alcune delle maggiori organizzazioni ebraiche, e anche qualche personaggio ai limiti della politica. Il tema centrale del Rapporto sul 2008 è la donna nella società ebraica contemporanea: in breve, molti progressi e successi, e ancora una lunga strada da compiere fino alla completa equità e parità di trattamento e opportunità. Ma a pagina 31 il testo allude alle indagini giudiziarie di cui sono oggetto l’ex-Capo dello Stato Moshe Katzav, il Primo Ministro Ehud Olmert, e Avigdor Lieberman capo del partito Israel Beiténu. Secondo il JPPPI, il danno creato da questi problemi di immagine a Israele e al popolo ebraico è di portata strategica. Qui Olmert è scattato e ha chiesto bruscamente: “A parte che le persone sono innocenti fino a che non sia stato provato il contrario, perché mai la Diaspora dovrebbe ficcare il naso in queste faccende”? Ebbene, commette un grossolano errore Olmert se ritiene che il popolo ebraico debba essere solidale con lo Stato d’Israele nei momenti di bisogno, ma non abbia contestualmente il diritto di partecipare alla funzione di controllo sulla qualità della vita pubblica in Israele e nel mondo. Il dialogo Israele-Diaspora non è, né può essere unilaterale, anche se è difficile ricondurlo a perfetta simmetria. Gli ebrei nel mondo come individui e come comunità, volenti o nolenti, sono coinvolti nelle vicende di Israele che sono obiettivamente centrali nella percezione del collettivo ebraico globale. I principali strumenti legislativi, esecutivi, militari, diplomatici, giudiziari, stanno ovviamente a Gerusalemme e non altrove. Ma chi chiede solidarietà non può negare il diritto alla compartecipazione attraverso l’espressione di opinioni indipendenti, sostenitrici o critiche, all’interno come all’esterno dello stato israeliano.

Sergio Della Pergola, demografo, Università Ebraica di Gerusalemme