Maimonide e la regola dello Shabbat
In una parte della sua Guida dei perplessi (III, 35) Maimonide si sofferma sulle mitzvòt. E ammette che molti precetti sembrano del tutto innaturali. Come giustificare allora pratiche apparentemente contro natura? Ecco che Maimonide capovolge l’argomento e a partire da qui ripensa l’ebraismo.
Che cosa distingue l’ebraismo dall’idolatria pagana? A ben guardare il pagano si accontenta dell’ordine naturale e anzi lo celebra. Questa celebrazione non trova più spazio nel mondo ebraico che, come tale, rappresenta il primo grande rifiuto del paganesimo. La Torah è una anti-idolatria consapevole, insistente, pervicace e ostinata. Mira a denaturalizzare l’essere umano ovvero a umanizzare le leggi naturali. È insomma un insieme di regole simboliche che dischiudono un al di là – umano – della natura. Di qui la innaturalità di alcuni precetti il cui scopo, per Maimonide, potrebbe essere anche solo quello di invertire le pratiche idolatriche.
Così le mitzvòt strappano l’ebreo a ciò che lo incatenerebbe altrimenti alla natura, cioè alla materialità in attesa di essere formata. Le mitzvòt sono dunque la forma di una vita che non si appaga del senso naturale e storico. È lo Shabbat a costituirne l’apice. Rottura della realtà naturale, interruzione della realtà storica, la celebrazione del settimo giorno, la ritualizzazione pratica che si compie nella comunità, istituisce e rende pubblico nell’universo “il principio della novità del mondo”.
Donatella Di Cesare, filosofa