Piccoli mostri crescono 2
…Tra gli aspetti del periodo viennese di Hitler su cui potrebbe basarsi un romanziere col senso della storia, ne cito tre. Il primo: sebbene fosse a volte affamato e persino disperato, Hitler disdegnava il lavoro manuale. Il secondo: odiava Vienna. Il terzo: in quella fase della sua vita lo si poteva definire legittimamente un artista e un intellettuale, sia pure mediocre. Hitler disdegnava il lavoro manuale perché lo riteneva incompatibile con la propria condizione sociale – una condizione molto fragile se si considera la sua mediocre educazione e il fatto che entrambi i genitori erano nati contadini – di membro della piccola borghesia. La sua ostilità nei confronti del socialismo nacque dal fondato terrore di finire risucchiato da un Lumpenproletariat di migranti rurali senza lavoro che sciamavano nella capitale da ogni angolo dell’impero.
Detestava Vienna perché Vienna gli fece capire per la prima volta che lui, come membro dell’etnia tedesca, apparteneva a una minoranza (sia pure potente) in uno stato multietnico. Per le strade doveva entrare in contatto, e persino competere, con persone che parlavano lingue inintelligibili, si vestivano in maniere differenti e avevano uno strano odore: sloveni, cechi, slovacchi, magiari, ebrei. Una xenofobia che fu all’inizio sospettosa e difensiva, una diffidenza da provinciale per gli stranieri, si rafforzò sino a diventare intollerante, aggressiva e infine genocida.
Hitler come artista forse non era un granché (aveva sempre avuto problemi con la figura umana — una debolezza significativa), ma non si può negare che, almeno nei suoi primi anni, fosse stato una specie d’intellettuale. Leggeva incessantemente (ma solo ciò che gli piaceva), s’interessava alle idee (ma solo a quelle che corrispondevano ai suoi pregiudizi) e credeva nel loro potere, si concentrava sulle arti (ma i suoi gusti erano irrimediabilmente provinciali e prematuramente conservatori).
Nella profusione di idee nuove cui era esposto fece una scelta che abborracciò insieme per comporre la filosofia del nazionalsocialismo. Su di lui fece un’impressione profonda la pseudoantropologia di Guido von List. Questi sud- divideva l’umanità in una razza dominatrice ariana, originaria dei recessi più settentrionali dell’Europa, e una razza di schiavi con la quale gli ariani si erano disgraziatamente incrociati nel corso dei secoli. Egli propugnava il recupero della pura discendenza ariana con una rigorosa segregazione sessuale dalla razza schiava, mediante la creazione di uno stato che comprendesse padroni ariani e schiavi non ariani, governato da un Fuhrer al di sopra della legge.
Un altro ciarlatano di cui Hitler subì l’influenza fu Lanz von Liebenfels, fondatore dell’Ordine dei Nuovi Templari ed editore della rivista Ostara, di cui Hitler era un avido lettore. Liebenfels era un misogino estremista che considerava le donne degli esseri inferiori attratti per natura dagli “uomini scuri e primitivamente sensuali delle razze inferiori”. Ciò che Hitler sapeva della scienza razziale e dell’eugenetica, e che introdusse poi nella politica nazionalsocialista, proveniva da letture scientifiche, ma era filtrato tramite divuigatori e volgarizzatori come Liebenfels.
Tutto sommato, le avventure di Adolf Hitler nel regno delle idee sono un avvertimento a non permettere che una persona giovane e impressionabile sia lasciata libera di perseguire la propria educazione in una condizione di libertà totale. Per sette anni Hitler visse in una grande città europea in un’epoca di fermenti da cui emersero alcune delle idee più eccitanti e più rivoluzionarie del nuovo secolo. Con un occhio infallibile scelse non le idee migliori, ma le peggiori tra quelle che gli aleggiavano intorno. Non essendo mai stato uno studente con lezioni da frequentare ed elenchi cli letture da seguire e compagni di studio con cui discutere e compiti da svolgere ed esami da affrontare, le idee semplicistiche che fece proprie non furono mai contestate in maniera seria. Le persone che frequentava erano mal preparate, volubili e indisciplinate come lui. Nessuno nella sua cerchia aveva l’autorità intellettuale per ridimensionare i maestri che lui si era scelto mostrandoli quali erano: saltimbanchi disdicevoli e addirittura ridicoli.
Normalmente una società può tollerare, e persino considerare con benevolenza, uno strato sociale di autodidatti e di maniaci ai margini delle sue istituzioni intellettuali. A rendere singolare la carriera cli Hitler è il fatto che, per una confluenza di eventi in cui ebbe parte anche la fortuna, egli poté non soltanto diffondere la propria dissennata filosofia fra i suoi compatrioti tedeschi, ma metterla in pratica in tutta l’Europa con le conseguenze che tutti conosciamo.
Come lui stesso riferisce, Hitler cominciò a occuparsi di politica solo verso la fine del 1918, quando, apprendendo che la Germania si era arresa a condizioni umilianti, giurò di adoperarsi per fare riconquistare «a qualsiasi costo» alla patria il posto che le spettava in Europa. Per attuare un tale risveglio, stabili che la Germania avrebbe avuto bisogno di un capo forte pronto a epurare il Volk da ebrei, comunisti, omosessuali e altri elementi inferiori. Prima del 1918 Hitler era uno delle migliaia di sognatori semistruiti con la testa piena di mistiche assurdità razziste; dopo il 1918 divenne un pericolo effettivo per l’umanità. Possiamo quindi dire che verso la fine del 1918, quando fece il suo giuramento «a qualsiasi costo», egli concluse un patto col diavolo e il male entrò nella sua anima?
Forse per lo storico questa domanda ha poco senso. Ma per chiunque studi il volto del ragazzino nella fotografia del 1899, essendo consapevole delle sofferenze che quello stesso ragazzino riuscirà col tempo a infliggere volontariamente al mondo, è una domanda convincente. «Il mondo scientifico ha ormai tanta autorevolezza che buona parte delle persone colte s’inalbera alla sola idea di un’entità quale il diavolo», dice Mailer attraverso il suo anonimo portavoce: «Nessuna sorpresa, dunque, se il mondo ha una limitata capacità di capire la personalità di Adolf Hitler. Detestano, questo sì, ma capirlo mai… del resto è l’essere umano più misterioso del secolo».
La domanda: Quando entrò il male nell’anima di Hitler? per Mailer ha quindi un significato estremamente preciso. La sua risposta è: Nell’istante del suo concepimento, quasi allo stesso modo in cui Dio, secondo il dogma cristiano, era presente e partecipe nel concepimento di Gesù. Nella storia di Mailer, il diavolo possedette Adolf Hitler da nove mesi prima della sua nascita, nell’aprile 1889, fino al giorno in cui egli morì, nel 1945, in modo che egli eseguisse i suoi ordini nel mondo.
Una risposta di questo genere richiede un certo sostegno teologico e metafisico che Mailer (con un omaggio a John Milton) non esita a fornire. Come esiste un Dio, secondo il racconto di Mailer, esiste anche un diavolo supremo, che i suoi sottoposti chiamano il Maestro. Hanno entrambi una visione di ciò che questo mondo potrebbe diventare, ma poiché nessuno dei due è onnipotente nessuno riesce a imporre del tutto la propria visione. I dodici anni del Terzo Reich sono stati uno dei trionfi del Maestro; senza dubbio anche Dio ha avuto le sue vittorie, ma nessuna di esse viene mostrata nel libro di Mailer.
La storia del giovane Adolf è raccontata da uno dei diavoli di medio livello nell’organizzazione infernale, un funzionario che ha il compito di tenerlo d’occhio, assicurandosi che non si allontani mai dalle strade della malvagità. Adolf non è runico compito assegnato a questo diavolo: nel 1895 egli deve concedersi un’interruzione di quarantatré pagine per frustrare il piano benevolo di Dio per i Romanov in Russia, e nel 1898 un’altra più breve per sovrintendere all’assassinio dell’imperatrice Elisabetta d’Austria.
Il tipo di esistenza condotta dagli immortali non può mai avere un gran significato per i mortali. Il resoconto fornito da Mailer attraverso il suo narratore dei lunghi eoni di guerra a bassa intensità fra le forze celesti e quelle diaboliche e delle lotte intestine nell’ambito della burocrazia infernale, benché svolto con sufficiente abilità, è l’aspetto meno interessante del romanzo. Ma almeno la sua risposta alla domanda su Adolf nella fotografia scolastica è una risposta esplicita. Sì, Adolf era malvagio già nel 1899. Fu un bambino malvagio prima di diventare un uomo malvagio e fu un infante malvagio prima di diventare un bambino malvagio. Alois e Klara Hitler sono ritratti convincenti di persone che fanno del loro meglio come genitori, considerando che sono umani e la natura umana è fragile, considerando anche che ci sono forze sovrumane schierate contro cli loro; altrettanto convincente è Adolf come bambino raggelante e ripugnante. Nonostante gli interventi soprannaturali, Mailer non si è abbassato sino a scrivere un romanzo del soprannaturale, un romanzo gotico. Forze oscure possono aver invaso la sua anima, maAdolf rimane decisamente umano, è uno di noi.
Quando ha scritto questo libro, Mailer aveva superato gli ottant’anni. La sua prosa può non essere più elettricamente viva come lo era quarant’anni fa, ma non ha perso nulla della propria audacia iinmoralistica. Ecco una scena con Alois e Klara a letto: «Con la linfa di lei a schiumargli sulla bocca, si capovolse e, viso contro viso, la trasse a sé con tutta la passione delle proprie labbra, finalmente pronto a lavorarla con il Segugio [il suo pene], a ficcarlo dentro la sua religiosità, sì accidenti alla religiosità, pensò Alois
— accidenti alla moglie pezzente e beghina, accidenti alla chiesa!
— era resuscitato, una specie di miracolo, era presente e vivo, la sua erezione una spada. Meglio di una tempesta in alto mare! Poi superarono quel momento perché lei — la donna più angelica cli Braunau — sapeva che si stava concedendo al diavolo, sì, sapeva che il diavolo era li, lì con lei e con Alois, tutti e tre persi nel geyser che fuoriuscì da lui, poi da lei, poi all’unisono, e io ero lì con loro, ero la terza persona risucchiata nel miagolio di tuffi e tre mentre discendevamo insieme la cascata, io e Alois a riempire il ventre di Klara Poelzl Hitler».
Non si può non essere d’accordo con Mailer: aiutarci a capire “l’essere umano più misterioso del secolo” è in effetti un’operazione opportuna. Ma in che modo, esattamente, questo romanzo favorisce la nostra comprensione? Guidandoci nella mente di un bambino antipatico che si eccita fisicamente guardando api incenerite vive e si masturba ascoltando i colpi di tosse emorragici di suo padre? Mailer sta davvero affermando che cominciamo a capire Hitler quando vediamo che gli atti malvagi dell’uomo adulto non sono diversi per natura — anche se enormemente diversi per proporzioni — da quelli di quando era bambino, essendo entrambi l’espressione di una psicopatolo già contorta, e talmente orribili da sfiorare la diabolicità? Sta quindi riaffermando in termini differenti la tesi di Dostoevskij che non esistono grandi delitti, che la fantasia di grandezza del criminale non è che una delle eresie dell’ateismo? Tutto il male è sostanzialmente banale, e noi cadiamo in una delle astute trappole del diavolo quando trattiamo il male con rispetto, quando lo prendiamo sul serio? In altre parole: fino a che punto intende essere serio un libro su Hitler, che segue di poco Il Vangelo secondo ilFiglio (1997), biografia del rappresentante terreno di un Dio per nulla onnipotente, un giovane inquieto che ode delle voci ma non sa mai con certezza da dove vengano? E il tono del Il castello nella foresta, a volte così leggero da rasentare il comico, non ci segnala che dovremmo prendere cum grano salis le vicende celesti come quelle infernali? Perché, nonostante il diavolo che è in lui, non sembra esserci ragione di aver più paura del giovane Adolf che di un cane sornione e dispettoso? E perché il Dio di Mailer è un così inefficiente manichino (fra i diavoli se ne parla con disprezzo come di «der Dummlcopf»)?
La lezione che Adolf Eicbmann ci trasmette, scrisse Hannah Arendt alla fine de La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, è “la spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male” (i corsivi sono della Arendt). Dal 1963, quando lei la scrisse, la formula della «banalità del male» ha acquisito una vita autonoma; oggi ha quel tipo di diffusione da cliché che aveva il “grande criminale” ai tempi di Dostoevskij.
In passato Mailer ha espresso ripetutamente la propria diffidenza nei confronti di questa formula. Come liberale laica, la Arendt non vede il potere del male nell’universo, sosteneva Mailer. Assumere che il male in sé sia banale sembra denotare una straordinaria povertà d’immaginazione. Se Hannah Arendt ha ragione e il male è banale, questo è molto peggio dell’ipotesi opposta, ossia che il male sia satanico — peggio nel senso che allora non esisterebbe nessuna lotta fra il bene e il male, e quindi resistenza non avrebbe significato.
Non è eccessivo dire che la polemica di Mailer con la Arendt è un persistente sottotesto del castello nella foresta. Ma lui le rende giustizia? Nel 1946 la Arendt ebbe uno scambio di lettere con Karl Jaspers, stimolato dall’aver egli usato la parola «criminali” per definire le scelte politiche naziste. La Arendt dissentì. In confronto alla mera colpa criminale, gli scrisse, quella di Hitler e dei suoi accoliti andava oltre e distruggeva ogni e qualsiasi sistema legale.
Jaspers si difese: se qualcuno sostiene che Hitler era qualcosa di più che un criminale, disse, riscbiadi attribuirgli proprio quella grandezza satanica cui egli aspirava. La Arendt tenne conto di questa critica. Quando arrivò a scrivere il libro su Eichmann, si sforzò di tener vivo il paradosso che, sebbene le azioni di Hitler e dei suoi accoliti possano sfidare la nostra comprensione, non c’era profondità di pensiero dietro il loro concepimento, né grandiosità d’intenti. Eichmann, un individuo per nulla interessante dal punto di vista umano, un burocrate fatto e finito, non si rese mai conta, in qualsiasi accezione filosofica del verbo, di ciò che stava facendo; e lo stesso si può dire, mutatis mutandis, per gli altri membri della banda.
Prendere la formula «la banalità del male» per compendiare il giudizio di Arendt sulle malefatte del nazismo, come sembra fare Mailer, significa dunque lasciarsi sfuggire la complessità della riflessione che la sottende: ciò che è proprio della banalità quotidiana di una politica di sterminio amministrata burocraticamente e industrialmente organizzata è il suo essere «indicibile e inimmaginabile», il suo andare oltre la nostra possibilità di comprensione o di descrizione.
Di fronte alle dimensioni delle morti, sofferenze e distruzioni di cui l’Adolf Hitler storico fu responsabile, la comprensione umana si ritrae smarrita. In modo diverso, la nostra comprensione può ritrarsi quando Mailer ci racconta che Hitler fu responsabile del Terzo Reich solo in senso mediato – che la responsabilità ultima è da imputarsi a un essere invisibile nota come il Diavolo o il Maestro. Il problema qui è la natura della spiegazione che ci viene offerta. E stato il diavolo a farglielo fare è una risposta che non si appella alla comprensione, ma solo a un certo tipo di fede. Se si prende sul serio la lettura di Mailer della storia mondiale come una guerra tra il bene e il male in cui gli esseri umani agiscono come rappresentanti di forze soprannaturali – vale a dire, se si considera questa lettura secondo il suo significato apparente anziché come una metafora estesa e non troppo originale per conflitti irrisolti e irresolubili all’interno della singola psiche umana allora il principio che gli esseri umani sono responsabili delle loro azioni risulta sovvertito, e con esso l’ambizione del romanzo di indagare ed esprimere la verità sulla nostra vita morale.
Per fortuna, il castello nella foresta non richiede di essere letto secondo il suo significato apparente. Dietro la superficie, possiamo vedere Mailer lottare con lo stesso paradosso che impegnò la Arendt. Può sembrare che invocando la dimensione soprannaturale egli affermi che le forze dalle quali era animato Adolf Hitler fossero più che mere forze criminali; eppure il giovane Hitler cui dà vita in questa pagine non è satanico e neppure demoniaco, è semplicemente un lercio figuro. Mantenere il paradosso infernale-banale in tutta la sua angosciosa imperscrutabilità può essere il risultato definitivo di questo notevolissimo contributo al romanzo storico.
Piccoli mostri crescono: Prima parte
J.M. Coetzee (Traduzione di Ettore Capriolo) – la Rivista dei Libri – febbraio 2009
Norman Mailer, Il castello nella foresta, trad. di Giovanna Granata, Torino, Einaudi, pp. 438, euro 19,00