Qui Torino – Il ritorno di Aharon Appelfeld: “Uno scrittore è innanzitutto un essere umano”
“Non sono capace di immaginare un vero scrittore che non tratti di se stesso e della sua vita”. Aharon Appelfeld (nelll’immagine) è di nuovo a Torino, dopo il suo grande intervento che ha inaugurato la scorsa primavera il Salone del libro. Le parole che affettuosamente mi concede a margine del suo incontro con il pubblico al Circolo dei lettori, dove assieme a Elena Loewenthal e Paolo Gardino ha presentato a un pubblico appassionato e commosso la versione italiana del suo ultimo libro (Paesaggio con bambina, Guanda editore, 148 pagine), mi guidano nell’incanto di un’opera sorprendente per la sua trasparenza. Tsili, la bambina protagonista del romanzo, è l’anima del suo passato. Un angolo da cui esplorare quella dimensione dell’innocenza su cui lui richiama insistentemente la nostra attenzione.
L’artista per lui è innanzitutto un essere umano. Se gli si chiede quale ruolo abbia nella sua esistenza la letteratura nel processo di perpetuazione della Memoria (e in particolare delle memoria della Shoah), risponde: “L’arte è essenzialmente testimonianza. Testimonianza umana, importante quanto quella più scientifica della storiografia”.
Hanno un che di infantile, ingenuo e curioso gli occhi azzurri di Aharon Appelfeld. Non è retorico dire che incarnano l’immagine di quelli di Tsili che si forma nella mente del lettore di Paesaggio con bambina.
Tsili è la protagonista di questo romanzo (presentato al pubblico torinese da Elena Loewenthal, Paolo Gardino e dall’autore) per molti versi autobiografico. Autobiografico non solo per quel che riguarda le vicende di una bambina sola e impaurita. Una bambina in fuga dalla guerra che imperversa, da una civiltà impazzita. Una bambina che si aggira per le foreste dell’Europa orientale in compagnia di ladri, briganti e prostitute, dei soli diversi cui le origini ebraiche la accomunano. Ma questo romanzo ci restituisce con fedeltà e minuzia le impressioni che può avere (e che effettivamente ha avuto) un bambino di otto o nove anni, completamente inesperto del mondo e dell’umanità, improvvisamente abbandonato a se stesso di fronte alla ferocia e alla crudezza della natura e di quel momento storico.
Quella di Appelfeld, per quanto in un certo senso realista, non è un’opera storiografica o cronachistica. L’autore tiene a precisare che il suo è sì un libro sull’Olocausto, ma è soprattutto la storia di un’infanzia. una narrazione prospettica. Qualunque altro scrittore avrebbe descritto la vita di Tsili in toni più forti e sconcertanti; qui invece i toni sono quelli propri di Tsili: innocenti. Il racconto prosegue privo di giudizi morali. Non antepone lamentele per le ingiustizie e le angherie subite. L’accettazione della vita così com’è, pur in tutta la sua tragicità e consapevolezza, è totale, acritica.
Appelfeld manifesta il dono di saper raccontare come un bambino, secondo quello che Elena Loewenthal definisce un “realismo della memoria”. Crea, in quanto artista, dei punti di vista sulla realtà, ma questo suo “creare” non è che un far riemergere in forma letteraria l’Aharon del 1941-1946, mai dimenticato. E questa facilità a immedesimarsi nel se stesso di sessantacinque anni prima è straordinaria.
Il punto è che per lui l’esperienza artistica non può prescindere da quella biografica.
Come fa notare Paolo Gardino, l’innocenza degli occhi di Tsili consente anche un approccio non manicheo ai personaggi incontrati. Essi, abbruttiti dalla guerra e dalla miseria, hanno spesso comportamenti meschini, ma ognuno di loro trova, nel cuore di Tsili, il suo riscatto. Caterina, la prostituta presso cui Tsili soggiorna durante un inverno (esperienza reale di Appelfeld), che vecchia e malata aveva cercato di vendere il corpo della sua ospite, verrà ricordata per sempre come bellissima, con grande affetto. Viene citato Terenzio: “homo sum, nihil humanum a me alienum puto”.
Ma nella terribile tenebra c’è sempre un punto di luce che non concede nulla all’ultimo pessimismo. “Un uomo che ti da un tozzo di pane o ti dice una parola di conforto ti dona un mondo nuovo”. E’ solo quel barlume di umanità e di bellezza che può trarre dalla disperazione.
Questo suo ottimismo di fondo, se di ottimismo si può ancora parlare dopo che si è consumato l’Olocausto e si è soli al mondo, orfani e apolidi, è poeticamente simboleggiato dalla conclusione del romanzo: “Con il cuore intenerito dal cognac, iniziò a cantare una ninnananna ungherese”.
Tutto sommato Appelfeld considera quegli anni e quegli incontri terribili come una scuola di vita. “Sono stati – racconta – una ricca esperienza che mi ha formato come uomo e come scrittore, e mi ha insegnato a cogliere il lumicino del bene nella più completa oscurità”.
E in questo modo riesce ad accompagnarmi nella sua ardua impresa di raccontare il male assoluto senza perdere la speranza e senza cancellare il senso della vita.
Manuel Disegni