antenati/Manifesto

Che tipo di ebrei erano i nostri lontani antenati che furono liberati dall’Egitto? Erano schiavi del tutto “assimilati” o avevano una forte identità ebraica? Dal racconto biblico abbiamo solo qualche indizio, il resto è legato a quanto racconta la tradizione rabbinica, che su questo argomento, ovviamente, è divisa. Vediamo le risposte: secondo una linea interpretativa gli ebrei avevano mantenuto la loro identità rimanendo fedeli ad alcuni modelli culturali essenziali: come la lingua e i nomi e non perdendo la speranza nella liberazione. Secondo un’altra linea erano completamente sprofondati nelle “49 porte dell’impurità” egiziana e mancava un soffio alla loro completa perdita; fu solo l’intervento divino a salvare la situazione facendo uscire “goi mikerev goi”, un popolo da dentro a un popolo, senza alcuna differenza tra i due. E’ evidente che le domande e le risposte non riguardano solo gli antenati ma nascondono un problema più grande e sempre attuale: che tipo di ebreo bisogna essere per sopravvivere ebraicamente, e qual è il ruolo degli uomini rispetto a quello divino riguardo ai processi di liberazione? Se noi non facciamo niente per noi che speranze abbiamo di essere liberati?

Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

Ho letto con sincero disgusto il commento editoriale del Manifesto (“Due piccoli ritocchi razzisti”) al mio articolo apparso su Forward (“Lieberman’s bright idea”) nel quale discutevo l’idea di un possibile scambio territoriale fra lo Stato di Israele e il futuro Stato palestinese. L’uso da parte del Manifesto della parola transfer è erroneo e fazioso. La proposta di scambio territoriale implica, precisamente, il non-trasferimento delle persone, proprio per evitare ciò che i palestinesi di Israele non vogliono fare, ossia traslocare. La rinuncia di Israele alla propria sovranità su alcune centinaia di chilometri quadrati ora in suo possesso su cui vivono cinquecentomila arabi, a favore dello Stato palestinese – in cambio di un’equivalente porzione di territorio in Cisgiordania abitata da israeliani – dimostrerebbe invece la presa di coscienza di quello che è già oggi un dato di fatto: l’identità nazionale dei palestinesi di Israele non è israeliana, ma palestinese. Le bandiere che sventolano oggi sulle case dei residenti delle località arabe in territorio israeliano non sono quelle di Israele ma quelle della Palestina. In qualsiasi paese europeo un fatto simile non sarebbe tollerato. L’Europa ha invece conosciuto infiniti ritocchi di confine, tra i quali quelli fra l’Italia e la Francia, e fra l’Italia e la Jugoslavia dopo la Seconda Guerra Mondiale. Cosa c’entra il razzismo?

Sergio Della Pergola, demogrago, Università Ebraica di Gerusalmme