fuoco/fine
Sull’altare del Santuario di Gerusalemme, a suo tempo, era sempre acceso un fuoco. Difficile capirne la funzione, visto che i sacrifici venivano “divorati” da un fuoco celeste. Alcuni commentatori spiegano, però, che in generale non c’è movimento dall’alto se l’iniziativa non parte dal basso. Come gli angeli del sogno di Giacobbe, che salgono e scendono sulla scala che porta a Dio.
Benedetto Carucci Viterbi, rabbino
Nella settimana appena trascorsa, molti hanno predicato. Nel gran vociare che si è fatto sia sul diritto da ripristinare sia sulla vita da salvaguardare, non avrebbe guastato recedere dalle proprie certezze e lasciare lo spazio a una riflessione pacata, lasciando il proprio “Io” un po’ indietro e considerando l’esperienza del dolore degli altri. Per esempio tentando di riflettere e, se non fosse chiedere troppo, di replicare a quanto segue: “Certamente sai che chiunque mi libererà da questa vita mi sottrarrà a una grande pena. Non so che cosa mi succederà dopo, ma non ho dubbi su ciò da cui sarò liberato. Ogni vita infelice ha una fine serena e chiunque compatisca e soffra per le angosce degli altri, se davvero ama coloro dei quali vede l’angoscia e se davvero è attento non tanto ai suoi desideri, ma a quelli di coloro che soffrono, desidera soltanto che le pene dei suoi cari finiscano, anche se proverà dolore per la loro scomparsa”.
Chi scrive non è un teen ager deluso, o un individuo digiuno di morale. E’ Abelardo in una delle lettere a Eloisa, scritta più o meno otto secoli fa. Non c’entra la secolarizzazione o l’abbassamento dei costumi. C’entra la capacità di farsi domande, e di darsi delle risposte che aprano a nuove domande. La settimana scorsa non c’era tempo. O, forse, l’esperienza del dolore era altrove.
David Bidussa, storico sociale delle idee