Il terremoto e la catastrofe, un’interpretazione filosofica
La parola di origine greca catastrofe vuol dire “rivolgimento”. Si riferisce a un mutamento repentino della terra e delle sue condizioni provocato da cause naturali. Così il terremoto – sostiene Aristotele – sarebbe il risultato di una singolare contrapposizione dei venti. La ciclicità, con cui gli eventi catastrofici si ripetono a distanza di tempo, viene intesa come l’occasione per il genere umano di nuove scoperte; ma per le catastrofi si cercano sempre spiegazioni naturalistiche e se ne indicano le cause meteorologiche, astronomiche, geografiche.
Molto diversa è l’ermeneutica che ruota intorno alla parola ebraica hurban. La catastrofe colpisce la comunità e va distinta dalla questione del male che coinvolge invece il singolo. Importante è che la catastrofe viene interpretata all’interno del patto dell’alleanza. Il che innalza l’evento catastrofico dal piano naturalistico a quello storico. In breve: ogni catastrofe, anche quella apparentemente più naturale, va letta nella sua dimensione storica, nella cornice del rapporto tra Dio e l’uomo. Questo deve evitare anzitutto la tentazione di spiegare l’evento nel modo più negativo, come una eclisse di Dio che abbandonerebbe così la scena della storia. Il cataclisma, la calamità, la distruzione, la rovina, si inscrivono nel complesso rapporto tra Dio e l’uomo. Segnalano non una assenza, ma piuttosto la preoccupazione di Dio – dunque una perseverante presenza; rinviano alla possibilità di un nuovo inizio, all’inizio di un ritorno.
Questa razionalizzazione storica (che non va presa per una giustificazione) attraversa tutta l’ermeneutica ebraica, soprattutto quella rabbinica, trova un apice in Maimonide, e malgrado le interpretazioni divergenti resta, anche dopo il Novecento, un punto stabile di riferimento sia nella teologia sia nella filosofia della storia.
Donatella Di Cesare, filosofa