odio/generalizzazioni

Oggi, 27 di Nisan, è Yom ha Shoa’ ve ha Ghevura’, il giorno dedicato al ricordo della Shoà e della Ghevurà la resistenza dei pochi superstiti del nostro popolo che nel Ghetto di Varsavia insorsero e lottarono contro i malvagi. La tradizione ebraica vede in Amalek l’archetipo dell’odio antiebraico di tutte le generazioni, il precursore di quanti, nei secoli a venire, saranno di minaccia all’esistenza di Israele. Tanto è vero che il preciso ammonimento “ricorda ciò che ti ha fatto Amalek”, ribadito dalla Torah, è annoverato fra i 613 precetti cui si deve informare la vita di ogni ebreo. Amalek provoca una terribile frattura che soltanto un forte e saldo ricongiungimento potrà ricomporre. All’attacco di Amalek, Mosè dice a Giosuè: “scegli per noi degli uomini per combattere contro Amalek”. Rashì sostiene che usando la parola “lanu”, “per noi”, Mosè, il primo Maestro di Israele, ha posto Giosuè, il sui discepolo, sul suo stesso piano, e quindi l’esegeta sottolinea che da questo episodio si apprende una importantissima norma valida per tutti i tempi, il rispetto che il Maestro deve all’allievo. Rav Itzchak Hutner evidenzia la non casualità del fatto che la norma del rispetto che il Maestro deve al suo allievo, la si apprende proprio dall’episodio della guerra contro Amalek. Hutner afferma che solo un rapporto di coesione e di continuità come quello fra Maestro e allievo, come quello fra Mosè e Giosuè, può sconfiggere Amalek e tutte le sue implicazioni. Solo attraverso l’unione fra Maestro e allievo, che costituisce la continuità della tradizione attraverso le generazioni, si può tentare di ricomporre la grande frattura amalecita. Lo studio della Torah, inteso nella sua accezione più ampia, continua a costituire, tra le sue molteplici valenze, una forma di resistenza. Uno sforzo per attutire e contenere la ferita inguaribile che ci è stata inflitta. Un tentativo di di rifar vivere tutta quella Torah che durante la Shoà è stata sommersa.

Roberto Della Rocca, rabbino

Oggi si commemorava in Israele il giorno della Shoah, che è anche l’anniversario della rivolta del Ghetto di Varsavia. Al Tempio Italiano di Gerusalemme ogni anno si usa leggere i nomi di tutte le vittime della persecuzione in Italia. Anch’io ho letto i nomi dei 14 congiunti della mia famiglia uccisi dai nazifascisti. Ma questo a Sergio Romano non sta bene. Il 16 aprile sul Corriere della Sera, a proposito delle vicissitudini ampiamente dimenticate dei militari italiani, l’ambasciatore dice: “Ho già scritto in altre occasio­ni che questa corsa alla me­moria è per molti aspetti la conseguenza del modo in cui le Comunità ebraiche so­no riuscite a ottenere che il tema della Shoah continuas­se a dominare l’agenda della memoria universale”. Dunque, è tutta colpa degli ebrei. Ci risiamo con le generalizzazioni. Quelle generalizzazioni a causa delle quali dal 1938 al 1945 alcuni ebrei morirono di fame e di freddo, altri in seguito a ferita riportata, altri, infine, causa carenza di ossigeno nell’ambiente chiuso in cui si trovavano. Romano dovrebbe spiegare più accuratamente il modo in cui gli ebrei sono riusciti a dominare l’agenda della memoria universale: con la violenza, col sotterfugio, col denaro? Col dominio dei mezzi di comunicazione? Perfidia ossessiva dell’autore di una lettera a un amico ebreo.

Sergio Della Pergola, demografo, Università Ebraica di Gerusalemme