identità/Yom ha Shoà

Nel primo capitolo di Avòt che abbiamo letto questo shabbàt, Yosè ben Yoèzer dice: “Sia la tua casa un luogo di riunione per i chakhamìm, impolverati alla polvere dei loro piedi e bevi come un assettato le loro parole”. Yosè ben Yoèzer vive nell’epoca della dominazione ellenistica in Eretz Israel, nel periodo di maggiori persecuzioni e di più alta assimilazione. La ricetta che propone per la sua epoca è una dose massiccia di Torà e di ebraismo che possa far fronte a una fortissima influenza esterna. La nostra epoca non è molto diversa, a parte le persecuzioni, da quella di Yosè ben Yoèzer ma quello che viene spesso proposto per il recupero di un’identità ebraica spesso molto affievolita è la ricerca di qualche flebile elemento ebraico da trovare nel cinema e nella letteratura ebraico-americana o israeliana. Yosè ben Yoèzer giudicherebbe tutto ciò inadeguato.

Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano

Yom ha-Shoà a Manhattan si celebra alla sinagoga di Shaarei Zedek nell’Upper West Side come nel Beit Emanuel dell’Upper East Side allo stesso modo: alla presenza di centinaia di sopravvissuti. Assistono a discorsi e preghiere in silenzio, senza tradire commozione, ma poi cantano in yiddish con voce ferma, determinata, sulle note dei combattenti del Ghetto di Varsavia. Sono circondati da figli, nipoti e bisnipoti. Sono gli eroi del popolo ebraico.

Maurizio Molinari, giornalista