Fragilità e forza dello Stato di Israele

La fondazione dello Stato di Israele e la sua esistenza rappresentano nell’ordine del mondo una sfida che è ancora difficile valutare in tutta la sua portata. Già costretto a difendersi prima ancora di essere fondato, Israele è diventato negli ultimi decenni, dopo Oslo, e soprattutto dopo la prima conferenza di Durban del 2001, lo Stato-paria fra gli Stati-nazione. La demonizzazione del sionismo, la delegittimazione mediatica, il riemergere di stereotipi arcani hanno tentato di decretarne l’isolamento mondiale. E la questione ebraica ha assunto dimensioni planetarie.

Si può e si deve essere orgogliosi delle stupefacenti realizzazioni compiute dallo Stato di Israele. Ma ancor più si deve essere orgogliosi del difficile e scomodo compito a cui Israele è chiamato. Lo Stato ebraico infatti non è – e non può essere – uno Stato come un altro, uno stato normale. Perché la sua esistenza viene messa in dubbio? Perché lo scandalo è il suo stesso modo di essere. È noto l’argomento della sua supposta illegittimità: l’esistenza di Israele sarebbe segnata da un peccato originale, quello cioè di aver scalzato, come popolo straniero, un popolo “autoctono”, cioè indigeno, nativo, locale. Se però il popolo ebraico è sopravvissuto a venti anni di esilio, è perché è rimasto legato a Sion, rivolto con la sua speranza a Gerusalemme.

Ma Israele irrita la sovrana autocoscienza delle nazioni che vantano le loro radici nella terra, la loro presunta identità territoriale. È come se – per la sua irriducibile estraneità – Israele sollevasse la domanda: chi sono gli abitanti originari, i primi occupanti, gli autoctoni, di questa terra, ma anche di ogni terra? Il popolo ebraico non può né dimenticare, né far dimenticare, che sulla terra nessuno è autoctono, ma tutti sono ospiti temporanei, stranieri residenti (Lev 20, 23). Rispetto all’autoctono, a chi crede di essere radicato sin dall’origine, lo straniero, pur essendo residente, ha un rapporto del tutto diverso con la terra, con l’altro, con se stesso. È questa possibilità aperta di un nuovo abitare che il popolo ebraico è chiamato a testimoniare.

Ecco perché il ritorno di Israele rappresenta la minaccia di un sisma per tutti gli Stati-nazione. Anche nel conflitto che, suo malgrado, lo coinvolge, Israele esibisce il limite dello Stato-nazione inchiodato all’immanenza del potere e del territorio, fondato sull’esclusione dello straniero. Se tutti i popoli, nello scenario attuale della globalizzazione, lo sperimentano ogni giorno, è Israele a indicare tale limite, ma anche a rinviare a un oltre. Quel che è richiesto a Israele, oggi più che mai, è restare fedele all’aldilà da sempre inscritto nello Stato di David. Il che vuol dire far fronte realisticamente alla “necessità dell’ora” senza smettere di guardare, nell’ora, a cioè che è a venire. Forza e fragilità di uno Stato che si richiama al diritto futuro di una promessa e che potrebbe aprire perciò nuovi scenari nel diritto politico mondiale.

Donatella Di Cesare, filosofa