Torino e i libri – Da Grossman a Kenaz a Bat Ye’or
All’ingresso monumentali faraoni segnalano che alla Fiera del libro di Torino il paese ospite quest’anno è l’Egitto. Eppure già all’ombra di queste gigantesche statue di cartapesta decine di migliaia di visitatori vengono a prendersi la loro copia di pagine ebraiche, la pubblicazione a larga tiratura ricca di spunti di cultura e di informazione che l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sta diffondendo in questi giorni. E l’attenzione alla letteratura in lingua araba del Medio Oriente, grande protagonista dell’edizione in corso, si accompagna a un ricco e seguitissimo filone dedicato alla cultura ebraica e agli scrittori israeliani. Quasi che l’esperienza della Fiera 2008, dove tra mille polemiche l’ospite era stato Israele, abbia lasciato un segno indelebile. Nelle sale del Lingotto si possono incontrare scrittori del calibro di David Grossman o Yehoshua Kenaz, l’inglese Howard Jacobson autore delle surreali Kalooki nights, il newyorkese d’adozione André Aciman, il giovane statunitense Todd Hasak Lowy o l’arabo israeliano Sayed Kashua. E poi giornalisti, storici, politologi e tanti intellettuali del mondo ebraico italiano (tra cui molti collaboratori del Portale dell’ebraismo italiano www.moked.it).
Nei padiglioni affollati e rumorosi della Fiera del libro, che in quest’edizione 2009 vede come paese ospite l’Egitto, gli incontri si susseguono a ritmi serrati, spesso accavallandosi. Un’ora esatta di dialogo con l’autore, perché alla porta già preme il pubblico dell’evento successivo e poi via di corsa verso il prossimo appuntamento. Tra miriadi di sollecitazioni seguire una traccia culturale, come quella ebraica, è un esercizio del tutto arbitrario e spesso faticoso.
Venerdì ad aprire le danze sul fronte israeliano è Sayed Kashua, intervistato dal giornalista Stefano Jesurum. A 34 anni Kashua è un caso singolare nel panorama letterario. Arabo israeliano scrive in ebraico, firmando tra l’altro una popolare rubrica sul settimanale Kol ha’ir in cui racconta in toni scanzonati la quotidianità dei villaggi arabi. I suoi due romanzi tradotti in italiano, E fu mattina e Arabi danzanti (entrambi editi da Guanda) hanno segnato, per tanti lettori, una svolta nella percezione della realtà del mondo arabo israeliano. Nonostante ciò, spiega Kashua, è stato molto difficile trovare un editore in un paese arabo. Gli gioca contro la scrittura in ebraico (e forse non a caso la prima edizione araba delle sue opere uscirà a Beirut, città di secolare tradizione cosmopolita). Eppure, dice lui, nella scelta dell’ebraico non vi sono intenzionalità. “Non scrivo in arabo perché non ne sono capace – dice – L’ebraico è la mia prima lingua di scrittura, quella che ho appreso a scuola. Comunque non sono il primo arabo che scrive in ebraico, anche il grande Shamas l’ha fatto”. Ma la scelta della lingua esplicita in ogni caso una scelta di campo. “Non mi piace parlare di arabi e israeliani come di due parti contrapposte. Nella realtà viviamo una situazione di separatezza: io voglio però mescolare le regole del gioco”. E a confondere ancor di più le acque Kashua elenca i suoi autori preferiti. Tutti israeliani: al primo posto, Etgar Keret.
Le regole del gioco si sovvertono anche per André Aciman, nato ad Alessandria d’Egitto in una famiglia sefardita di origine turca, che vive e lavora a New York. Intervistato da Elena Loewenthal, Emmanuelle de Villepin e Wlodek Golkorn, Aciman, di cui in italiano è appena uscito il romanzo d’ispirazione autobiografica Ultima notte ad Alessandria (Guanda), incarna un cosmopolitismo vissuto e sofferto. Il suo legame con il mondo dell’infanzia alessandrino, dove s’intrecciano in armonia lingue, culture e religioni, s’interrompe bruscamente con l’espulsione per un esilio che troverà approdo in un altro meltin’pot, quello newyorkese. In mezzo, una tappa in Italia. “Non mi sento egiziano – spiega Aciman – Non lo sono mai stato e non me l’hanno mai permesso. Ma non mi sento nemmeno statunitense. Mi sento un newyorkese così come una volta mi sentivo alessandrino, figlio di una civiltà che oggi non esiste più”. Ma quest’identità così volatile e per tanti versi così moderna porta con sé un dolore vivo e profondamente ebraico. “Quando la gente si sposta molto i morti rimangono abbandonati e pochi anni dopo sono dimenticati, quasi non siano mai esistiti. E’ accaduto a intere generazioni di ebrei, anche alla mia famiglia. Da qui mi è venuta la spinta a scrivere il libro, perché si sappia com’era il mondo ormai scomparso d’Alessandria d’Egitto”.
Affonda le sue radici in Egitto anche l’esperienza di Bat Ye’or, lo pseudonimo che in ebraico significa Figlia del Nilo con cui è nota la scrittrice Giselle Littman, protagonista insieme a Ugo Volli e Dario Peirone di un incontro organizzato dall’Associazione Italia Israele. Nata al Cairo e naturalizzata britannica, Bat Ye’or è conosciuta come pioniera nello studio delle forme di sottomissione al dominio islamico e della Jihad. “Leggere i suoi libri – dice Ugo Volli – è importante per riuscire a guardare in controluce le notizie pubblicate dai media e capire davvero ciò che sta accadendo”. Per Bat Ye’or la direzione degli eventi è infatti molto chiara, come illustra nel suo libro Il califfato universale, da poco edito in italiano da Lindau. “In Occidente – spiega – è in atto un profondo processo di islamizzazione. Gli stretti legami fra l’Unione europea e la Conferenza islamica stanno indebolendo le identità nazionali e i valori religiosi europei così da rafforzare il potere islamico. Per questo le politiche di contenimento dell’immigrazione vengono definite razziste e vi sono forti pressioni per favorirla”. E sempre in direzione di una progressiva islamizzazione dell’Europa, dice Bat Ye’or, va inserito il prospettato ingresso della Turchia in Europa. “Il momento è molto critico – conclude – Se non lottiamo, anche a sostegno di Israele, rischiamo di perdere i nostri diritti e la nostra identità giudaica e cristiana”.
La giornata di sabato porta con sé l’appuntamento con due grandi della letteratura israeliana, Yehoshua Kenaz e David Grossman. Incontri molto diversi – raccolto e quasi sussurrato il primo, vibrante di applausi e affollatissimo il secondo – a significare un divario netto di poetica, linguaggio e, perché no, perfino esposizione mediatica. Intervistato da Elena Loewenthal, Kenaz – di cui Nottetempo ha da poco mandato in libreria Paesaggio con tre alberi – parla del mestiere di traduttore (traduce dal francese), di libri e di scelte letterarie con il rigore gentile di chi della riservatezza ha fatto una cifra di stile e di vita. “A 62 anni non ho ancora capito né perché si scrivono libri né perché si leggono So soltanto che per me è una sorta di dovere – dice – Scrivere è molto diverso dal tradurre. Quando traduco m’immedesimo nell’autore e scrivo in ebraico come potrebbe fare lui stesso. Ma se sono io a scrivere non sono mai convinto di ciò che sto facendo. La storia inizia a girarmi per la testa e la lascio lì a passeggiare per un po’. Finché non mi decido a scrivere”. E nel processo creativo si dà una sorta di misteriosa trasfigurazione. “Non amo rileggermi. Ma quando lo faccio spesso mi stupisco di quel che ho fatto. Mi viene da dire: è troppo buono per me”. Potrebbe essere una sorta di prova del nove artistica. “In tutto ciò che ho scritto – dice infatti Kenaz – c’è un nucleo autobiografico. Non posso pensare d’iniziare senza questo nucleo da tenere in mano. Ma l’arte non è solo questo. E’ quel tessuto di avvenimenti e personaggi che gli si costruisce intorno. E’ questa la grande avventura della letteratura”.
Viaggia su tutt’altri binari l’incontro con David Grossman. A cominciare dalla sala, la più grande e lussuosa del Lingotto. Per entrare è indispensabile il biglietto. E i biglietti sono andati a ruba già di prima mattina. Ciò nonostante una coda chilometrica attende comunque all’ingresso nella speranza di rimediare in extremis un posto per ascoltare lo scrittore che vent’anni fa, con Vedi alla voce amore, fece scoprire all’Italia la letteratura israeliana. Esce il Nobel Orhan Pamuk, entra David Grossman. Lo accoglie un applauso scrosciante, da rockstar più che da raffinato autore. Lui sorride affabile, ringrazia. Ma non cede alle civetterie da divo e per un’ora abbondante, intervistato da Giovanna Zucconi, zooma su un panorama di vita, letteratura e politica di respiro ampissimo. A partire dal suo ultimo libro A un cerbiatto somiglia il mio amore (Mondadori), da mesi ai primi posti nelle classifiche dei best seller italiani, per approdare alla pace in Medio oriente.
“In Italia – dice – la gente si è mostrata ben disposta a esporsi a questo libro su un piano emotivo. All’inizio ero convinto che questo lavoro, che parla di Israele, dei suoi dilemmi e delle tensioni della sua vita, poteva interessare solo chi vive lì. Ma quando è stato pubblicato all’estero moltissimi lettori mi hanno detto che affronta invece temi universali: le paure, il modo di allevare i figli, i rapporti tra fratelli”. Grossman non nomina mai il figlio Uri, caduto sul fronte libanese nel 2006. Ma la sua presenza è palpabile in ciascuna delle parole che descrivono il libro, scritto dopo la sua morte.
Poi il discorso si sposta sulla scrittura (“il grande piacere dello scrivere è lo sforzo di comprendere gli altri, di vedere il mondo come loro lo vedono”) sui media (“siamo vittime di un linguaggio che manipola le persone e sminuisce la loro unicità. Tanti oggi sono attenti alla pulizia dell’ambiente o degli alimenti: perché non dovremmo prestare altrettanta attenzione alla purezza del linguaggio?) per concludere con la politica. Da Obama (“per la prima volta dopo molti anni ha parlato agli americani come a degli adulti: senza manipolarli o illuderli”) alle prospettive di pace. “Spero che Obama imponga a Nethanyahu la soluzione dei due stati. Voglio credere che il nostro primo ministro in fondo sta aspettando proprio che qualcuno lo costringa. Tutti noi sappiamo che la soluzione può arrivare solo da questa formula. Altrimenti tra poco entreremo in un ennesimo ciclo di violenza e sangue. E al termine ci ritroveremo al punto in cui siamo ora”.
Sono di nuovo applausi entusiasti. L’incontro si chiude e si apre uno dei rituali che alla Fiera del libro coinvolgono tutti gli autori, dall’esordiente alla star: la firma degli autografi. Superfluo sottolineare che la calca per David Grossman è numerosa ed entusiasta. La security ha ormai i nervi a pezzi. Un’addetta della casa editrice raccoglie i nomi per le dediche e lo scrittore firma una mole impressionante di volumi. Senza dimenticare un sorriso gentile, una parola e una stretta di mano per tutti.
Daniela Gross