L’ebraismo e la condizione femminile
La condizione della donna nell’ebraismo è un tema che merita profonda e attenta riflessione. Perché c’è il rischio che possano prevalere pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni. L’emancipazione non può essere più confusa con la liberazione. È vero che le donne sono riuscite a modificare la propria esistenza, protetta e relegata, che sono giunte a una impensabile libertà. Ma spesso si fraintende questa libertà: come se si trattasse di ricalcare semplicemente i modelli maschili. Così nel segno dell’emancipazione si rivendica l’esigenza di parlare e di parlare sempre più ad alta voce. E se invece la liberazione fosse proprio l’opposto? Fosse ad esempio la necessità di far capire anche agli uomini quanto sia importante – e assolutamente attuale – la qualità prettamente femminile dell’ascolto?
Non occorre essere uguali, dove l’uguaglianza viene svuotandosi di contenuti. Piuttosto è indispensabile porre l’accento sulla differenza, sottolineare ricettività, accoglienza, abbandono, tutti quei tratti “femminili” che sono stati dimenticati, esclusi, spinti nell’oscurità. Da questa oscurità, che loro stessi hanno contribuito a determinare, gli uomini si sono sentiti e si sentono minacciati. La donna è nel loro immaginario quella pericolosa fragilità che mina la loro pace spirituale.
Anche nell’ebraismo ha prevalso una interpretazione maschile, razionale. Il che non vuol dire che il femminile non abbia uno spazio ancora in gran parte da riscoprire, una valenza simbolica a cui è indispensabile attingere. Non solo nelle figure classiche. L’ebraismo dello scorso secolo è stato – da Etty Hillesum a Hannah Arendt – un ebraismo al femminile, fedele alla duplice differenza che lo contraddistingue, attento a restituire dignità alle donne.
Donatella Di Cesare, filosofa