Il cervello tra giudizi e pregiudizi
Per gentile concessione dell’autrice pubblichiamo uno stralcio dell’intervento di Raffaella Rumiati (Laboratorio di neuroscienze, Scuola superiore di studi avanzati, Trieste, nell’immagine a fianco) al convegno “La diversità umana”.
In anni recenti, i ricercatori hanno cominciato a dedicarsi allo studio delle basi nervose dell’aspetto sociale di alcuni comportamenti umani, quelli che cambiano in virtù della nostra appartenenza a un gruppo etnico. Un primo risultato apprezzabile di questa ricerca riguarda i pregiudizi impliciti che emergono quando valutiamo individui che appartengono a un gruppo etnico diverso dal nostro.
La tendenza a mostrare un’associazione negativa nei confronti dei membri di un gruppo etnico diverso da quello cui apparteniamo noi, senza esserne consapevoli, è un fenomeno noto da tempo agli psicologi sociali. Simili pregiudizi si osservano anche in altri ambiti: per esempio, si tende ad associare le donne più spesso alla casa che al laboratorio, o a preferire i giovani ai vecchi. La cosa curiosa è che questi pregiudizi impliciti non rispecchiano quello che pensiamo di credere, cioè i nostri giudizi espliciti.
Che non si tratti di un mero fenomeno di laboratorio è risultato evidente durante l’ultima corsa per conquistare la Casa Bianca. In quell’occasione, si è tornati a parlare diffusamente dell’ “effetto Bradley” secondo cui le preferenze pubbliche dei votanti, sondate prima delle elezioni, non rifletterebbero necessariamente i loro giudizi impliciti, come si evince dai risultati ottenuti in passato dai candidati afro-americani (Bradley, Wilder o Dinkins) che tra il 1982 e il 1992, nonostante fossero stati dati con un vantaggio notevole, finirono con l’essere sconfitti o eletti di misura.
Quindi, spiegare come si formino i pregiudizi razziali nella nostra mente, e verificare se siano plastici, cioè suscettibili di modificazioni, potrebbe aiutarci a spiegare e, chissà, magari anche a ridimensionare, i pregiudizi sociali nel mondo reale.
Nelle ricerche in cui sono state osservate incongruenze tra giudizi razziali impliciti ed espliciti, i pregiudizi impliciti sono stati valutati utilizzando l’Implicit Association Test (IAT).
In questo test, i partecipanti devono usare lo stesso tasto per indicare, metà delle volte, le parole “buone” o le facce di neri, e un altro tasto per indicare le parole “cattive” o le facce dei “bianchi” (condizione incongruente), mentre nell’altra metà dei casi, l’abbinamento è invertito (condizione congruente). L’atteggiamento implicito è definito come la differenza media tra i tempi di reazione delle due condizioni (incongruente – congruente): i punteggi più elevati indicano che per i soggetti è più difficile accoppiare i neri alle parole buone che a quelle cattive.
Per verificare la presenza di un pregiudizio razziale implicito, si può ricorrere anche alla misurazione della risposta di trasalimento in individui di un gruppo etnico che osservano facce di individui di un altro gruppo. Questa risposta aumenta alla vista di stimoli negativi o spaventosi, e questo aumento è stato messo in relazione all’amigdala, una regione della corteccia temporale che risponde alla presentazione di stimoli che hanno un significato emotivo, facce comprese.
Invece, per misurare quello che gli europeo-americani pensano apertamente degli afro-americani, gli psicologi statunitensi si servono della Modern Racism Scale (1986). Per esprimere se sono d’accordo o meno con affermazioni del tipo “La discriminazione contro i neri non è più un problema negli Stati Uniti” oppure “E’ facile capire la rabbia delle persone nere in America”, i soggetti devono assegnare un punteggio da 1 a 6 a ciascuna di esse. I punteggi bassi indicano un atteggiamento favorevole nei confronti dei neri e i punteggi elevati rappresentano credenze e atteggiamenti loro avversi. […]
Che cosa aggiungono a quello che sapevamo già gli studi sui pregiudizi condotti utilizzando la risonanza magnetica funzionale? In uno studio del 2000, Elizabeth Phelps e collaboratori hanno cercato di identificare i correlati cerebrali dei pregiudizi razziali impliciti di donne e uomini europeo-americani.
La risonanza magnetica funzionale non misura direttamente l’attività cerebrale, ma la risposta emodinamica – il BOLD (da Blood Oxygenation Level-Dependent) – che accompagna l’aumento di attività neuronale associato all’elaborazione di uno stimolo (per es. una faccia) o all’esecuzione di un compito (per es. dire è una faccia nota o sconosciuta). Nel primo esperimento, i ricercatori hanno presentato ai soggetti nello scanner volti di maschi afro-americani ed europeo-americani sconosciuti. Finito lo scanning, hanno misurato i pregiudizi impliciti con l’IAT e la risposta di ammiccamento, che è una componente del riflesso di trasalimento dei muscoli sotto l’occhio, servendosi dell’elettromiogramma. Per valutate le convinzioni e gli atteggiamenti espliciti hanno somministrato la Modern Racism Scale.
Per quanto riguarda il comportamento, ai test impliciti i soggetti europeo-americani hanno valutato negativamente i neri , risultato che non è stato replicato con la prova esplicita.
Per quanto riguarda il cervello, i ricercatori hanno localizzato le risposte dell’amigdala alle facce dei neri e quelle alle facce dei bianchi facendo ricorso alla region-of-interest (ROI) analysis. La ROI ha rivelato un’attivazione dell’amigdala maggiore per le facce dei neri in 8 soggetti su 12; mentre nei rimanenti 4 questa attivazione non era così chiara. Questi risultati suggeriscono una certa variabilità. […]
Nel secondo esperimento, la Phelps ha dimostrato che la risposta dell’amigdala può essere modificata. Sostituendo ai volti di sconosciuti quelli di afro-americani famosi, le risposte all’IAT sono risultate meno pregiudizievoli, non si è osservato effetto di trasalimento significativo per le facce dei neri e non si sono osservati pattern di attivazione dell’amigdala quando i soggetti osservavano facce di neri famosi rispetto a quelle dei bianchi. In questo esperimento, però, è possibile che la riduzione del pregiudizio sia stata determinata non solo dalla famigliarità (erano volti di afro-americani famosi) ma anche dalla categorizzazione (e di successo). Questo è stato il primo studio a dimostrare che membri appartenenti a diversi gruppi etnici possono evocare diverse risposte dell’amigdala e che questa attività correla con la valutazione sociale spontanea.
La Phelps è molto cauta nell’interpretare questi risultati e ci ricorda che i dati di neuroimmagine sono correlazionali e non esprimono un rapporto di causalità tra un’area cerebrale e il comportamento: è probabile che l’attivazione dell’amigdala e le risposte comportamentali riflettano l’apprendimento sociale all’interno di una data cultura, in un particolare momento della storia delle relazioni tra gruppi sociali.
In un articolo apparso in Psychological Science nel 2004, William Cunningham e collaboratori hanno dimostrato che, oltre all’amigdala, la valutazione razziale comprende sistemi cerebrali più estesi.
In questo studio di risonanza magnetica funzionale, volti di europeo-americani e di afro-americani venivano presentati per 35 ms o 525 ms (alternati a quadrati bianchi) a soggetti europeo-americani mentre erano nello scanner. Il compito consisteva nel rispondere premendo un bottone o l’altro a seconda che lo stimolo visivo (faccia o quadrato) apparisse a destra o a sinistra del punto di fissazione posto al centro dello schermo. Finita l’acquisizione dei dati di neuroimmagine, ai soggetti veniva somministrato l’IAT, la Modern Racism Scale e l’Internal Motivation to Respond Without Prejudice Scale. Gli autori hanno creato un indice che esprime il conflitto tra valutazione implicita e valutazione esplicita, e che riflette la discrepanza tra atteggiamenti automatici e atteggiamenti controllati.
I risultati ai test somministrati dopo l’acquisizione dei dati di neuroimmagine, mostrano che tutti i soggetti erano in disaccordo con le affermazioni razziste ma concordavano con le affermazioni non razzista, oltre a rivelare una motivazione a rispondere senza pregiudizi. Eppure mostravano atteggiamenti razzisti all’IAT. […]
I risultati al test motivazionale (Internal Motivation to Respond Without Prejudice Scale) suggeriscono che i soggetti europeo-americani erano motivati a regolare o controllare stati d’animo indesiderati nei riguardi degli afro-americani. Questo risultato concorda con i risultati di neuroimmagine: quando le facce venivano presentate per un periodo più lungo, il confronto delle risposte neuronali alle facce dei neri con quelle alle facce dei bianchi, non generava l’attivazione dell’amigdala. […]
I risultati di questo studio suggeriscono che: l’elaborazione automatica e quella più controllata dell’informazione relativa ai gruppi sociali hanno basi nervose distinte e che l’elaborazione controllata può moderare l’attività che altrimenti emergerebbe dall’elaborazione automatica.
Diverse ricerche comportamentali hanno dimostrato che siamo più veloci e accurati nel riconoscere facce di individui che appartengono al nostro stesso gruppo etnico, rispetto a quelle che appartengono a un gruppo etnico diverso (Same – Race Advantage). Le facce di individui di un gruppo etnico diverso dal nostro sono percepite come più simili di quelle di individui del nostro gruppo (Other – Race Effect).
Questo vantaggio viene spiegato col fatto che siamo esperti di facce del gruppo cui apparteniamo. Questa spiegazione tuttavia vale solo se il gruppo di appartenenza è maggioritario. Nella popolazione nordamericana, questo effetto, infatti, è più forte per gli europeo-americani che per gli afro-americani, verosimilmente perché gli europeo-americani sono meno esperti di facce di afro-americani, mentre quest’ultimi, essendo una minoranza, sono esperti anche di facce di europeo-americani.
A sostegno dell’interpretazione di questi effetti in termini di expertise, Alexandra Golby e collaboratori, in una ricerca pubblicata nel 2001 sulla rivista Nature Neuroscience, hanno riportato un’attivazione nella Fusiform Face Area (FFA) nella corteccia occipito-temporale destra, quando i soggetti di entrambi i gruppi etnici osservavano le facce del loro stesso gruppo rispetto a quando osservavano oggetti dei quali entrambi i gruppi avevano poca esperienza (radio antiche). Altri studi hanno dimostrato che l’FFA è coinvolta non tanto nell’elaborazione di facce, quanto piuttosto in quella di stimoli per i quali gli individui hanno un expertise percettivo (per es. risulta attiva negli esperti di macchine o di uccelli quando osservano esemplari appartenenti a queste due categorie)
Lo studio di Sophie Lebrecht e collaboratori, appena uscito su PLos One, affronta il problema del riconoscimento delle facce in relazione ai pregiudizi. La loro tesi è che è più difficile valutare socialmente le facce che si differenziano meno facilmente, per cui in questi casi gli individui tendono a far ricorso a stereotipi sociale.
Dopo aver addestrato un gruppo di europeo-americani a discriminare volti di individui appartenenti a due gruppi etnici diverso dal loro (cinesi e afro-americani), i ricercatori hanno visto che i loro punteggi a un test simile all’IAT erano cambiati: erano diventati meno razzisti.
Con quest’ultima ricerca il campo di studio dei pregiudizi sociali impliciti si arricchisce di due nuovi concetti: 1) questi comportamenti emergono sia dai sistemi sociocognitivi sia da processi di categorizzazione percettiva 2) e i pregiudizi razziali impliciti hanno probabilmente sia una componente percettiva sia una componente sociale.
Conclusioni
Cosa ci dicono le neuroscienze a proposito della valutazione e percezione di individui che appartengono a gruppi etnici diversi dal nostro:
1. Siamo automaticamente portati a valutarli negativamente ma inconsapevolmente, mentre siamo consapevolmente bendisposti a controllare le nostre reazioni là dove il contesto prescrive norme di tipo egualitario.
2. Questa valutazione implicita si verifica quando l’altro è appena visibile (35 ms!)
3. Questa avversione automatica è associata all’amigdala la cui attivazione però decresce in funzione della famigliarità e/o categorizzazione dell’altro.
4. Possiamo controllare atteggiamenti negativi attivati spontaneamente mettendo in campo processi più riflessivi (la corteccia prefrontale che modula l’amigdala).
Se siamo razzisti possiamo cercare di smettere.
Raffaella Rumiati