Joe Kubert, la tecnica del “what if” e un giovane disegnatore ebreo della Shoà

Di Joe Kubert abbiamo già parlato raccontando Un gangster ebreo, non abbiamo però ancora scritto di una delle sue opere più significative sul piano artistico, storico e culturale. Joe Kubert è entrato in quel gruppo di autori che racconta attraverso il fumetto la storia del popolo ebraico. Come Will Eisner raccoglie dalla sua esperienza e dai ricordi di famiglia trame e sentimenti che via via racconta. Con Yossel ha tentato, in modo a dir poco straordinario, di sfruttare una tecnica narrativa tipica del fumetto supereroistico come il what if in un contesto storico. La Shoà. Il what if non è altro che raccontare una storia cambiandone alcuni elementi per cambiarne la trama ed esplorare altre potenzialità del racconto stesso. Un what if della storia dei mutanti X-Men può essere che i mutanti non siano perseguitati, ma anzi amati e accettati pacificamente dall’umanità. Il what if di Joe Kubert lo vede in prima persona coinvolto. Ecco cosa racconta della sua infanzia: “Dal momento in cui vidi il mio primo fumetto in un quotidiano, prima che io potessi perfino leggere le parole, le immagini mi spingevano dentro un mondo che io avrei amato. Flash Gordon, Prince Valiant, Bringing Up Father, Jungle Jim, The Phantom, Tarzan, Terry and the Pirates, Dick Tracy, The Gumps, Gasoline Alley, The Katzenjammer Kids. Questi personaggi erano vivi per me. Non erano bidimensionali, coloratissimi (e spesso fuori registro) disegnati con una linea nera. Non per me.
E questo era ciò che volevo fare. Disegnare storie con immagini che fossero vive.” Ma se questo ragazzo profondamente innamorato dei fumetti non fosse cresciuto a Brooklyn, ma in Polonia? Se adolescente si fosse trovato nel ghetto di Varsavia? Se avesse comunque cercato di disegnare quei personaggi dei fumetti statunitensi? Se… se… ecco il what if. Joe Kubert è cresciuto nel mondo dei “super” della DC e della Marvel. Le immagini di quei personaggi, che solo nei fumetti combattono i nazisti, passano sotto i suoi occhi, fanno parte della sua immaginazione. Ecco allora la storia di Yossel, un quindicenne che viene deportato nel ghetto di Varsavia, ma che non vuole rinunciare a disegnare quei personaggi che leggeva nella rivista settimanale Wedrowiec, o nella serie di volumi dedicati a Flash Gordon, Blysk Gordon i kròlowa blekitney magii (Flash Gordon and the queen of the blue magic). Yossel attira l’attenzione dei suoi carnefici, lo invitano al comando nazista per disegnare, come un animale da zoo. Nel frattempo Kubert racconta il ghetto, i lager, l’incredulità della Comunità ebraica di fronte ai racconti di un rabbino fuggito, racconta della rivolta del ghetto e dell’eroismo di quegli uomini che misero in scacco quello che sembrava l’esercito più forte del mondo. Ma se la tecnica del what if permette di far incontrare due mondi così distanti come la realtà della Shoà e il fantastico mondo dei supereroi, e in modo originale esplorare quanto forse sappiamo fin troppo bene, è nella scelta grafica che Kubert incide maggiormente le nostre emozioni di lettori. Il primo passo, quando si produce un fumetto, è disegnare le tavole con la matita, il passo successivo è quello dell’inchiostro. Quanti fumetti sono diventati dei capolavori perché l’inchiostratore era stato capace di esaltare le linee del disegnatore. Ma Kubert ci racconta: “la mia idea originaria era di disegnare prima e poi applicare l’inchiostro. Ma, con i miei primi schizzi, ho sentito una immediatezza nelle mie matite che ho voluto conservare.” La plasticità raggiunta con questi disegni rende le immagini quasi vere (“Questi personaggi erano vivi per me. Non erano bidimensionali” – ricordate?), Yossel, i deportati, i partigiani, i nazisti sono carne viva, pulsante, tridimensionale che si aggrappano ai nostri occhi. Si piange leggendo i disegni di Joe Kubert. I partigiani sono veri, e ancora una volta combattono per difendere il loro popolo. “Siamo pronti a morire da essere umani”.

Andrea Grilli