Pagine d’Israele 3 – Yediot Ahronot. Occhio e cuore per le notizie
In Israele si diceva: il ministro legge Maariv, il suo autista Yediot Ahronot. Ora anche i ministri leggono Yediot, assieme ad altri 350.000 lettori durante la settimana e 600.000 nel weekend, cifre che garantiscono al giornale il primo posto per diffusione nel paese.
Fondato nel 1939, pochi anni dopo Yediot Ahronot (di cui in alto riportiamo un’immagine della sede) rischia di scomparire: il 14 febbraio del 1948 la redazione del giornale è vuota; quasi tutto lo staff ha seguito l’allora direttore Azriel Carlebach che, ribellatosi all’editore Yehuda Moses, ha deciso di creare un proprio giornale, Maariv.
Quel giorno rimarrà impresso in modo indelebile nella memoria di Dov Yudkovsky (nell’immagine a fianco), mostro sacro del giornalismo israeliano, che racconta: “Era sabato sera e ricevetti una telefonata di Yehuda Moses, il quale in preda allo sconforto mi disse – ho ricevuto una lettera spregevole -”. Carlebach dichiarava che il giorno seguente sarebbe uscito il nuovo giornale Yediot Maariv: “Hai un’ultima possibilità. Ti daremo dei soldi, anche se non molti. Non avete chance, perché tutto il giornale, dal redattore all’ultimo dei venditori, si muove con me. Quindi è meglio che accetti la situazione e salvi l’onore. In caso contrario, tu e la tua famiglia siete destinati a sprofondare negli abissi”. Questo sarebbe il contenuto della lettera secondo quanto riportato da Yudkovsky in un’intervista ad Haaretz.
Dopo “l’ammutinamento” di Carlebach, Moses, uomo altero e determinato, incarica Yudkovky e Herzl Rosenblum, che sarà caporedattore di Yediot per quasi quarant’anni, di salvare il giornale. I due riescono a mettere insieme una redazione a tempo di record e Yediot Ahronot continua ad essere pubblicato nonostante tutte le peripezie.
Con il tempo, grazie ad una politica lungimirante, il giornale della famiglia Moses non solo esce dai guai finanziari ma comincia a guadagnare terreno nei confronti di Maariv, che fino agli anni Sessanta è il quotidiano più diffuso del Paese.
Molte delle scelte editoriali che permetteranno a Yediot Ahronot di diventare la testata più diffusa di Israele sono da attribuire a Dov Yudkovsky. Definito l’ultimo dei titani del giornalismo (dopo la scomparsa di Tommy Lapid e Adam Baruch), Yudkovsky si racconta in un’intervista a Haaretz. Nato a Varsavia nel 1923, Dov cresce e studia ad Anversa, da dove scappa con i genitori allo scoppio della guerra, per trovare rifugio nel sud della Francia. La scelta, tuttavia, non si rivela felice: all’alba del 26 agosto 1942, viene arrestato dai gendarmi francesi e consegnato ai nazisti che lo portano al campo di transito di Drancy. Una tragica tappa verso la deportazione ad Auschwitz. “Per trentatre mesi sono stato all’inferno. Vivevo in mezzo ad esseri umani ma non c’era nulla di umano”.
Sopravvissuto al lager, Yudkovsky torna in Belgio ma è solo e sente di non avere futuro in Europa; decide quindi di partire per Israele in cerca del cugino, Yehuda Moses: “improvvisamente un contatto umano. Yehuda mi accolse e mi adottò, mi disse che casa sua, era casa mia ”. Da questo momento il giovane entra a far parte della famiglia Moses, potente dinastia della carta stampata, e inizia a lavorare per Yediot Ahronot, lasciandovi un’impronta indelebile.
Dopo molti anni Yudkovsky torna ad Auschwitz e un collega gli chiede quale sensazione si provi a ripercorrere il campo, lui risponde: “fa una grossa differenza il mezzo con cui arrivi, se in auto o in treno”.
In circa quarant’anni il duo Moses Yudkovsky riesce a portare il giornale a livelli inaspettati, conquistando più del cinquanta per cento del mercato israeliano. Basti pensare che il rapporto delle vendite con Maariv fino agli anni Sessanta era di uno a tre: Yediot vendeva 30.000 copie al giorno, Maariv 90.000; oggi il primo vende 350.000 copie e circa il doppio nel weekend, mentre il secondo si aggira attorno alle 130.000 al giorno e 250.000 nel fine settimana.
La chiave del successo secondo Yudkovsky è stata quella di creare un giornale della gente, “bisogna attrarre l’occhio e il cuore del lettore”. Yediot ha il merito di comprendere quali siano gli argomenti di interesse per la gente comune, infatti sarà il primo giornale a dedicare un’ampia sezione allo sport grazie alle intuizioni proprio di Yudkovsky: “negli anni sessanta ci fu un’importante partita di calcio fra Russia e Israele. Non ho mai avuto alcun interesse per lo sport; allora vi dedicavamo una colonna a settimana. Partecipai alla partita per il suo significato politico. Quando fui allo stadio di Ramat Gan, vidi 40 mila persone in delirio. Immediatamente pensai: se 40 mila persone impazziscono in questo modo per una partita, perché diamo loro solo una colonna alla settimana? Quindi abbiamo introdotto una pagina di sport al giorno, poi un supplemento settimanale, infine un supplemento giornaliero”.
Il progetto di Yediot è di conquistare la periferia, quella fascia di popolazione emarginata che sta cercando di integrarsi nella società locale. Una visione opposta rispetto alla maggioranza degli altri quotidiani, la cui attenzione è rivolta alle classi intellettuali, per poi, in un secondo momento, dirigersi verso le altre fasce di pubblico.
Per avvicinarsi al suo target di lettori e facilitare la diffusione, Yediot adotta un formato simile a quello dei tabloid inglesi, snello e leggero. Inoltre sceglie di adoperare un linguaggio semplice e scorrevole, facilmente comprensibile anche da coloro che hanno difficoltà con l’ebraico, in particolare gli immigrati di prima generazione. Per questo motivo, negli anni Settanta, la redazione si dota di una equipe di esperti con il compito di rielaborare gli articoli con uno stile più intuitivo, veloce, simile alla lingua parlata. Questi ghostwriters, racconta Nahum Barnea, una delle punte di diamante del giornale, sono dei veri alchimisti, capaci di trasformare in oro gli scarabocchi inviati dai corrispondenti. Barnea li ricorda attraverso un’immagine romantica, seduti davanti alla macchina da scrivere, avvolti nel fumo della sigaretta, tenuta sempre e rigorosamente in bocca, a battere ad una velocità stupefacente un’infinità di pezzi.
Nel 1967 scoppia la guerra dei Sei giorni. La tensione aumenta con il procedere del conflitto e l’informazione assume inevitabilmente un ruolo centrale. Nei mesi precedenti alla guerra, per sbaragliare la concorrenza, la redazione di Yediot Ahronot decide di distribuire gratuitamente il giornale ai soldati. Inizia così una diffusione su larga scala del quotidiano, in particolare fra i riservisti, e il successo è straordinario. Yediot entra in modo dirompente nelle case israeliane e riesce ad ottenere un consenso trasversale, muovendo il primo passo verso la vetta, occupata da anni dal rivale Maariv.
La scelta di dedicarsi al grande pubblico non contrasta con la ricerca di uno standard qualitativo elevato. Per ottenere l’attenzione dell’élite del paese, Yediot riesce ad acquistare in via esclusiva le memorie di Moshe Dayan, di Itzhak Rabin e di Henry Kissinger e, a partire dagli anni Settanta, recluta alcune delle firme più autorevoli nel panorama israeliano.
Fra queste troviamo Adam Baruch (nell’immagine a fianco), giornalista, scrittore, inventore del new journalism locale. Cresciuto nel quartiere di Mea Shearim e nipote del rabbino Wachtfogel (direttore di una Yeshiva e dayan), Baruch è riuscito a coniugare la tradizione ebraica con la cultura moderna israeliana, dimostrando che le due esperienze non sono in contrasto ma possono essere complementari. Il suo libro Seder Yom (l’Ordine della Giornata), con il significativo sottotitolo “vita quotidiana nello specchio della Halakha” è una dimostrazione di questo rapporto.
Durante il servizio militare Baruch Rosenblum coltiva la sua passione giornalistica, scrivendo per Haaretz. Le regole militari, però, vietano di scrivere per un giornale civile, quindi, per evitare di incorrere in una pesante sanzione, sceglie il nome d’arte Adam Baruch, che l’ho accompagnerà lungo tutta la vita.
Mancato nel 2008, Adam Baruch era dotato di una cultura straordinaria: grande conoscitore e critico d’arte, pubblicava su questo argomento una rubrica settimanale su Yediot Ahronot, molto apprezzata dal mondo artistico e letterario. A dimostrazione della sua versatilità, aveva anche uno spazio su Maariv, su cui rispondeva, da laico, alle domande di carattere religioso poste dai lettori.
Altra grande firma di Yediot Ahronot è Nahum Barnea, considerato dagli israeliani come il giornalista più influente degli ultimi cinquant’anni. Premio Israele per la comunicazione nel 2007, uomo sul campo, giornalista che tocca con mano le problematiche della guerra, anche a rischio della propria vita. I suoi articoli descrivono le situazioni più complesse e delicate in modo lucido e razionale, con un realismo che a volte risulta sconcertante. Riflettendo sulle critiche alla stampa israeliana riguardo al conflitto a Gaza, Barnea sostiene in un’intervista al Sole 24 ore che “il problema non è se pubblichiamo o meno le foto delle distruzioni che provochiamo a Gaza, ma la reazione della gente. Da voi si indigna, da noi no”. Poi aggiunge “la gente qui sta guardando il conflitto attraverso una lente ristretta: vuole vincere e non vuole che i media facciano troppe domande”.
L’abilità di Barnea nel leggere le situazioni complesse si è vista durante le elezioni israeliane del 1996. E’ stato il primo a predire che il braccio di ferro fra Peres e Netanyahu si sarebbe concluso con la vittoria di quest’ultimo. Il risultato non era affatto scontato, infatti gli exit pole davano in vantaggio il candidato laburista ma la vittoria fu, per soli 29.000 voti, del Likud. Riguardo a quelle elezioni si disse “andammo a dormire con Peres, ci svegliammo con Netanyahu”.
Un ottimo giornale è fatto da bravi giornalisti, ma non solo. Yediot, oltre ad avere fra le sue fila firme prestigiose, ha cercato di creare un rapporto di fiducia con i suoi lettori, sorprendendoli con titoli sensazionali e scoop da prima pagina, ma anche coinvolgendoli con reportage di assoluta qualità. Yediot vuole fornire al suo pubblico una visione d’insieme attraverso diversi punti di vista; per questo annovera fra i suoi collaboratori due rabbini, Shmuel Avidor, primo a presentare in televisione una discussione sulla Parashà della settimana, e il fratello Menachem Hacohen, membro laburista della Knesset.
L’apertura del sito ufficiale di Yediot Ahronot, Ynet, ha permesso al gruppo editoriale di dimostrare il suo potere anche sulla rete: il portale conta 800 mila accessi al giorno e si attesta fra i primi posti nella classifica dei siti più cliccati in Israele.
Come traspare dalle parole di Menachem Ganz, corrispondete in Italia del quotidiano, Yediot Ahronot ha un assetto organizzativo ben inquadrato, ciascuno ha il proprio spazio e lavora con massimo rigore. L’eccezionale visibilità del giornale crea un forte senso di responsabilità, per questo ciascun collaboratori si impegna perché il prodotto rimanga sempre su standard elevati: analisi politiche accurate, notizie esclusive, reportage di alto livello su questioni spinose, ma anche titoli sensazionali ed originali, articoli di cronaca, interviste a personaggi dello spettacolo e dello sport.
Come ha detto anni fa Yudkovsky : “se ci sono due circhi in città, uno con cani e gatti, l’altro con leoni e tigri, il pubblico andrà a vedere il secondo. E’ più pericoloso, ma attrae molti più spettatori”. Per questo la gente compra Yediot Ahronot.
Daniel Reichel