Lo straniero che è in noi
“Nessun essere umano è illegale”. È questo lo slogan che ha guidato la Immigrant Workers’ Freedom Ride (New York, 4 ottobre 2003). La paura dell’altro, dello straniero, bandito nella clandestinità, nasce dalla paura dell’altro che è in noi, dell’estraneo che ci abita, di cui preferiremmo appunto non sapere nulla, che vorremmo reprimere o lasciare nella segretezza.
Siamo stranieri a noi stessi. Non solo nell’inconscio, ma anche nelle situazioni quotidiane: nel nome che non abbiamo scelto, e che forse non ci piace, nel corpo che spesso ci è di intralcio, soprattutto nella malattia e nella passività forzata, nella figura che guardiamo allo specchio o in fotografia, e che in genere non apprezziamo, nelle esperienze del sogno o dell’incubo, dell’idea improvvisa, dell’ossessione, degli scherzi della memoria, per non parlare del passato, soprattutto se dimenticato e del futuro che temiamo.
Lo straniero non è insomma sempre solo fuori, ma è anche dentro, nella più intima familiarità. È forse imparando a riflettere sulla nostra estraneità costitutiva, sul clandestino che è in noi, che guarderemo con altri occhi gli altri, gli stranieri, i clandestini.
Donatella Di Cesare, filosofa