Dopo il 9 di Av – Superare il lutto
Hanno insegnato i Maestri che dopo la distruzione del secondo Santuario, vi furono numerose persone che manifestarono il loro dolore decidendo di non mangiare carne e non bere vino. Si rivolse loro Rabbì Jehoshua (allievo di Rabban Yochanan ben Zaccai) chiedendo perché mai non mangiassero carne e non bevessero vino; al che essi risposero che non avrebbero potuto mangiare carne, che veniva sacrificata sull’altare e bere vino, che pure faceva parte del servizio, e ora tutto ciò era stato abolito dopo la distruzione del Santuario stesso. Rabbì Jehoshua rispose che in tal caso non si dovrebbe mangiare neppure pane, frutta e neanche bere acqua dato che anche questi facevano parte del servizio nel Santuario. Come risposta al loro silenzio, il Chacham si rivolse loro con affetto: “Figli miei, lasciatemi dirvi: non manifestare il nostro lutto assolutamente, è impossibile, essendo il Santuario già distrutto; manifestare troppo il lutto (come fate voi) è impossibile, dato che non si stabilisce un decreto per il pubblico, altro che nel caso che la maggioranza del pubblico possa applicarlo.” (Tosefta, Sotà 15,11; Talmud Bavli, Bava Batra, 60 b).
E l’insegnamento dei Chachamim è quello di lasciare una parte della parete di fronte all’ingresso di casa senza intonaco, di mangiare regolarmente lasciando un po’ di cibo, e di ricordare Jerushalaim nelle nostre occasioni liete dicendo: “Se ti dimenticherò o Jerushalaim, che sia dimenticata la mia destra” (Salmi, 137, 5-6) ed il passo conclude dicendo che chi prende il lutto per Jerushalaim ha il merito di vederla nella sua gioia (cfr. Talmud Bavli, Ta’anit 30b).
È un dato di fatto che l’insegnamento ha servito per 1939 anni, nei quali abbiamo ricordato ogni giorno Jerushalaim; Rabbì Jehoshua si rivolge a coloro che volevano reagire con rigore invitandoli a unirsi all’insegnamento dei Saggi, rivolto a comprendere tutto il popolo. Una guida deve sapere in quale misura potrà essere seguita dal suo popolo: meglio essere meno rigorosi nell’aspirazione di essere seguiti da molti e per lungo tempo. In tal modo l’insegnamento non perderà la sua freschezza, così come il nostro lutto è un lutto attuale e non storico.
Non possiamo però nascondere la nostra gioia nel vedere Jerushalaim ed Erez Israel accogliere i suoi figli, provenienti da ogni parte del mondo e rimaniamo sorpresi nel vedere parte dei nostri fratelli non partecipi della nostra gioia; un fenomeno simile si verificò nei grandi giorni dopo la dichiarazione Balfur e la conferenza di San Remo in cui i popoli riconobbero il diritto degli Ebrei a Erez Israel; il Rav Kook reagì allora spiegando che solo chi era stato in lutto anche per la situazione fisica di Erez Israel, che era rimasto addolorato per il suo abbandono, poteva “avere il merito di vederla nella sua gioia”, (Mo’ade Hareaià, p. 567) onde il nostro Tish’à beav è un misto di dolore intenso per tutto quello che ci manca ancora nella nostra vita spirituale, che impedisce ancora la ricostruzione del Santuario (che avverrà a suo tempo con il consenso generale), ma è anche occasione di ringraziamento al Sign-re per quanto è stato realizzato in questi anni, in cui abbiamo potuto godere dello Stato di Israel indipendente in Erez Israel; “nachamù nachamù amì”, consolate, consolate il Mio popolo (Isaia, 40,1).
Alfredo Mordechai Rabello, giurista, Università Ebraica di Gerusalemme