Qui Torino – Zamorani editore: “I primi a trattare della persecuzione ebraica”

“Ho fatto l’editore perché non sapevo fare altro”, spiega con un sorriso Silvio Zamorani, da quasi trent’anni alla guida della sua casa editrice di corso San Maurizio, a Torino. La domanda, a dire il,vero, era banale – Come mai ha scelto di fondare una casa editrice? – La risposta è stata concisa e esauriente, un po’ l’immagine dello stesso interlocutore. Si sceglie un lavoro per necessità, per ambizione oppure semplicemente perché è ciò che si sa fare.
Dal 1982 alla guida della sua casa editrice, Zamorani, spiega che un editore piccolo e indipendente non può che specializzarsi è per questo che cominciarono le pubblicazioni in ambito storico, in particolare sul fascismo. “Abbiamo il merito di essere i primi ad aver trattato della persecuzione ebraica in Italia (M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938)”, afferma con una punta di orgoglio l’editore torinese che poi sottolinea: “La Zamorani tratta anche di filosofia, vi sono testi sul Vicino Oriente e altri più specifici sull’ebraismo; comunque non siamo settari”. Forse per questo si sono dedicati anche alla produzione di manifesti d’arte e di cornici per mostre, peraltro con ottimi risultati (da Mainolfi a Gastini, da Ramella a De Maria, a Berruti).
La storia di Zamorani, però, non comincia a Torino ma oltre mare, in Egitto, dove il nonno ferrarese, l’omonimo Silvio Zamorani, si trasferisce con l’incarico di procuratore del Banco di Roma per l’Africa. Al Cairo, con una fiorente e eterogenea comunità ebraica, la famiglia trascorre il periodo della guerra ma già dal 1932 il nonno è costretto a lasciare l’incarico per aver rifiutato di iscriversi al partito fascista. Sono anni duri. “La famiglia si impoverì con il passare degli anni, poi arrivarono le leggi razziste a dare il colpo di grazia e ad aggravare le nostre condizioni, ma capitò a noi come capitò ad altri, tutto lì”, racconta con estrema semplicità e naturalezza il nipote Zamorani, e ancora: “La nostra fu una sorte migliore: la sorella del nonno, sua cognata e purtroppo altri nostri parenti fecero una fine terribile in Italia. Per non parlare dei parenti di mia madre in Grecia di cui sopravvisse solo una persona. Il problema era anche riuscire a ottenere delle informazioni riguardo ciò che succedeva in Europa era difficilissimo sapere come e quando avvenivano le cose”. Le tragiche notizie dalla Grecia arrivarono tramite due zii, militari delle Brigate greche del governo inglese in esilio, che appena sbarcati, andarono a cercare i propri parenti e scoprirono cosa era realmente successo. “Dall’Italia le cose si seppero solo con la fine di tutto quanto. Notizie non si ebbero prima”.
Finita la guerra molti parenti iniziano a lasciare l’Egitto, chi per trasferirsi in Israele, chi per altre mete, ad esempio il Brasile, per trovare nuove opportunità di vita e di lavoro.
Dopo la guerra del Sinai del 1956, inizia l’espulsione da parte del governo degli ebrei egiziani con confisca delle proprietà. Fra i 25 mila che saranno espulsi, c’è anche la famiglia Zamorani che lascia l’Egitto nel giugno del 1957. “I tempi di espulsione – spiega – erano quelli di capienza di due navi, una si chiamava Esperia, l’altra Enotria. Gli approdi possibili erano la Spagna ma c’era Franco, la Francia ma era appena stata in guerra con l’Egitto, poi c’era l’Italia, la Jugoslavia e l’Albania non erano proprio appetibili mentre la Grecia era appena uscita da una violenta guerra civile. Quindi molte altre possibilità per entrare in Europa non c’erano. Le navi facevano la spola tra Alessandria, Genova e Venezia”. Gli Zamorani scelgono il capoluogo ligure, ma non vi rimangono a lungo. Il padre parte per Milano in cerca di lavoro, poco dopo raggiunto dalla madre mentre Silvio e il fratello più piccolo si spostano a Torino, accolti dalla Comunità Ebraica nell’orfanotrofio di via Cesare Lombroso. Vicino c’è il collegio rabbinico e così il futuro editore conosce i futuri rabbini, fra cui Giuseppe Laras, Luciano Caro, Roberto Bonfil, per citarne alcuni. I ragazzi si ricongiungo ai genitori a Milano, per poi tornare nel 1964 a Torino, dove il padre ha trovato lavoro.
“Io avevo bisogno di lavorare, ma non in modo spasmodico – scherza Zamorani alla domanda sui suoi inizi – trovai lavoro presso Einaudi come correttore esterno. Era comodissimo perché potevo lavorare quando mi pareva, poi per ragioni sindacali non potevano più tenere i correttori esterni che dovevano essere assunti. Io lo vissi più come una disgrazia che come una fortuna”. Sarà stato uno dei motivi per cui lasciò Einaudi? Non credo; il desiderio era quello di essere indipendente, di imbarcarsi in una nuova sfida. Gli obiettivi erano ben delineati e poco frequentati da altri, spiega Zamorani: “Sapevamo cosa volevamo fare” e una delle prime esigenze era pubblicare sul tema della persecuzione ebraica in Italia “per molti anni non se ne è parlato e siamo stati i primi a farlo”.
“Credo di essere stato fortunato, ho sempre avuto la sensazione di attraversare un fiume, trovando ogni volta un sasso per non bagnarmi”, afferma rispondendo alla domanda sulle difficoltà incontrate durante la sua carriera. La reputazione della casa editrice si comprende dai nomi degli autori presenti nel catalogo, fra cui M.Sarfatti, L. Allegra e F. Levi.
Il discorso continua sul futuro dell’ebraismo, in particolare in Italia: “Da un punto di vista numerico sono molto spaventato, dall’altra parte io so una cosa ed è che i nostri avi con numeri molto molto piccoli hanno fatto cose straordinarie, vuol dire che non è una buona giustificazione essere in pochi e dire non si può far nulla”. Invece sulla considerazione un po’ provocatoria sulla possibilità degli ebrei di essere considerati “normali”, Zamorani risponde con pronta ironia: “L’unica mia consolazione quando vedo un ebreo compiere qualcosa di brutto è pensare: beh il razzismo non ha proprio alcun fondamento”. Infine sul quanto l’identità ebraica abbia condizionato la sua vita: “Moltissimo. Ma cosa ci posso fare? Non è una scelta. Sono qua perché sono stato buttato fuori; sono stato buttato fuori perché ebreo”- poi aggiunge riguardo al suo rapporto con l’ebraismo – “La risposta la diede molti anni fa mio nonno. Lui si sposò due volte perché rimase vedovo; si considerava libero pensatore e non si qualificava come ebreo. Entrambe le volte sposò un ebrea e alla domanda – perché sposi un ebrea se non te ne frega niente, se ti consideri laico?- il nonno rispose – e io un’altra laica dove la trovavo secondo te?”.

Daniel Reichel