Un gesto doveroso di commemorazione
Un turista entra ad Auschwitz camminando sull’ombra del famigerato ingresso, con il suo slogan “Arbeit Macht Frei.” C’è una disciplina piuttosto nuova che si chiama “Dark Tourism,” “Turismo Oscuro.” E’ un etichetta coniata negli anni ’90 da due professori alla Glasgow Caledonian University, in Scozia. Vuol dire l’atto di viaggiare e visitare siti di morte, di disastro e di altri fatti o esperienze che sono percepite come macabre. Molti viaggi che compio ai luoghi del patrimonio ebraico in Europa orientale, e dei quali scrivo, può trovarsi, forse, in quella categoria. Viaggio spesso verso cimiteri ebraici abbandonati, sinagoghe in rovina, e altre vestigia di una civiltà brutalmente distrutta. Preferisco però pensare di visitare questi luoghi come un’affermazione e un riconoscimento di vita, di cultura, di ricchezza e pienezza durata per centinaia di anni. Visitare luoghi specifici che ricordano la Shoà, forse può essere considerato un esempio di “Dark Tourism,” oltre che di un gesto doveroso di commemorazione, di ricordo, di onore. Per me, resta sempre interessante guardare la gente che si lascia fotografare davanti agli angoli iconici dei lager. In tanti lasciano anche segni della loro presenza. Posano fiori, candele o sassolini sui binari della morte. A volte addirittura scrivono il loro nomi sul muro del edificio dove si entra. A luglio, ho portato un amico ad Auschwitz per la prima volta. E’ un musicista americano, non ebreo. Ma ha 60 anni, era nato solo quattro anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Si ricorda bene dalla sua infanzia quanto fortemente si era sentito – anche negli Usa- il peso dell’eredità della guerra e della Shoà. E’ cresciuto con le immagini e il simbolismo sempre a portata di mano: l’ingresso del lager che proclama “Arbeit Macht Frei,” i crematori, la fine dei binari della ferrovia a Birkenau, dove gli ebrei, usciti stanchi, disorientati e impauriti dalle carrozze, venivano uccisi. Ho visitato Auschwitz tante volte, ma ogni volta che ci vado, mi sento di entrare in un luogo che rappresenta una sorta di dimensione diversa. Una volta dentro il perimetro, mi sembra che nulla esista nel mondo esterno. Questa volta, ho camminato con il mio amico, guardando un po’ attraverso i suoi occhi come pure attraverso i miei: il suo primo incontro tangibile con la realtà di Auschwitz. Con una sorpresa: al nostro arrivo, nel parcheggio, abbiamo incontrato un mio amico, Michael Schudrich, il rabbino capo della Polonia, che conosco da quasi 20 anni. Prima di entrare nel lager che è il simbolo più devastante della morte, abbiamo chiacchierato un po’ con un rappresentante della vita.
Ruth Ellen Gruber
(testo e immagine di Ruth Ellen Gruber, tutti i diritti riservati)