…respingimenti

Il 13 settembre 1943 mio padre, mia madre e mio fratello maggiore, allora di 6 mesi, attraversavano a piedi illegalmente, cioè senza regolare visto, la frontiera svizzera a Arogno, vicino a Lugano. Dopo un interrogatorio, vennero avviati a un campo di raccolta e infine fu loro concesso lo status di rifugiati. Molti ebrei italiani non furono altrettanto fortunati e vennero respinti, altri vennero traditi e venduti ai nazifascisti dai contrabbandieri, altri ancora invece, come la mia famiglia, si salvarono grazie all’accoglienza della Confederazione. La Svizzera era allora un paese assai meno ricco di oggi, circondato da ogni lato dal Reich tedesco o dai suoi vassalli e con un’opinione pubblica in maggioranza ostile a un’invasione di stranieri fuggiaschi. In tutto durante il corso della guerra la Svizzera accolse 300 mila rifugiati, ovvero il 7 per cento della sua popolazione e circa 28 mila ebrei, mentre altrettanti ne rimandò indietro, quasi sempre a morte certa . Questa è la storia recente di molti di noi, dei nostri genitori o nonni, sommersi o salvati in una politica di “respingimenti” dura e dolorosa, ma non indiscriminata e totale. Si dirà che era una storia diversa da quella di oggi e sarà anche vero (ma che cosa succede a un eritreo o a un sudanese che viene ributtato in pasto al suo dittatore?), ma è possibile che oggi come ebrei italiani e non solo come italiani tout-court, noi e i nostri rappresentanti ufficiali non abbiamo proprio niente da dire ai nostri concittadini (secondo un sondaggio del Corriere della Sera favorevoli ai respingimenti al 70 per cento) e ai nostri governanti?

Marco Vigevani, agente letterario