Voci a confronto

«Pls stop comparing Israel’s army to Somali pirates! This is insulting to the Somali pirates who didn’t murder anyone» («Smettiamola di paragonare l’esercito di Israele ai pirati somali! Questo è un insulto ai danni dei pirati, che non hanno ucciso nessuno»). Così scrive tale Amira Howeidy su Twitter. Esordiamo con questa citazione, a mo’ di triste distico, che nulla ha a che fare con la rassegna della stampa cartacea ma molto con lo stato d’animo (armato) degli spiriti dei molti, plausibilmente di non pochi lettori esposti alla potenza delle immagini e dei racconti di quanto è successo. Si va infatti chiudendo una settimana campale, dove a dominare non solo le prime pagine dei giornali ma anche e soprattutto i nostri pensieri è stata la vicenda della «Freedom Flotilla» e del durissimo scontro che si è consumato al largo di Gaza, con la morte di nove attivisti filopalestinesi e il ferimento di alcuni soldati dell’esercito di Gerusalemme. Le cronache sono sufficientemente note a tutti i lettori per non richiedere di essere richiamate nello specifico, anche se a titolo di riepilogo si può ancora rileggere quanto Stefano Caselli scriveva su il Fatto quotidiano martedì scorso. Oggi, a rientro avvenuto dei militanti propalestinesi in patria, molti sono gli articoli a loro dedicati. Tra i tanti, Grazia Longo su la Stampa, così come Giordano Stabile sulla medesima testata, Paolo Alfieri su Avvenire, Roberta Zunini per il Fatto quotidiano, Cinzia Gubbini su il Manifesto, Anna Momigliano per il Riformista nonché, ça va sans dire, il resoconto di Angela Lano – tra gli italiani presenti sulle navi della Flotilla la figura di maggiore spicco, autentica pasionaria della causa palestinese – per Repubblica. Le invettive e le accuse contro lo Stato ebraico si sprecano, andando così a confortare, purtroppo, l’alto tasso di risentimento di cui è già da tempo destinatario. Da ciò trae alimento, inoltre, la non troppo silenziosa convinzione, a volte mormorata altre volte urlata, che la ferocia e l’intemperanza sia parte costitutiva dell’indole israeliana. Pregiudizio puro, va da sé, ma come tale però capace di autoalimentarsi. Uno «Stato fascista» tout court (in omaggio ad antiche suggestioni), anche a giudicare dai riflessi in casa nostra, come resoconta Fabio Perugia su il Tempo. La mancanza di cautela nell’accogliere dichiarazioni infiammate, e spesso prive di riscontri verificabile, purtroppo è molto diffusa. Si legga quindi l’intervista a Lucio Caracciolo, sempre su il Fatto quotidiano, dove la questione terminologica (capire chi sono i protagonisti in campo attraverso il modo in cui definiscono sé e la realtà circostante) è ben spiegata. Peraltro da giorni vanno diffondendosi articoli, che pure non hanno la medesima eco offerta alla cronaca più spicciola, i quali mettono in guardia rispetto alla considerazione acritica verso quanti, autodefinendosi «pacifisti», velano le loro ascendenze politiche nonché le curatele di cui godono. Così, ad esempio, quanto racconta Gian Micalessin su il Giornale. Dare conto delle diverse interpretazioni e della pluralità di giudizi espressi dalla carta stampata, ancora oggi, è comunque una impresa titanica, ai limiti dell’impossibile, almeno in questi giorni. A titolo di sintesi rimandiamo quindi alle pacate riflessioni di Angelo Panebianco, su il Corriere della Sera. Altre considerazioni, informate al senso di misura, sono quelle svolte da Luisa Arezzo su Liberal. Un quadro di insieme, assai poco invitante, riguardo agli effetti su Israele, è quello di Gigi Riva per l’Espresso. Marco De Martino per Panorama raccoglie invece le voci polemiche (e non) dei blogger israeliani. Su questo versante, ma con indicazioni più politiche e meno angoscianti ed estemporanee, segnaliamo anche le considerazioni di Segre per il Giornale insieme alla secche parole di Elie Wiesel, intervistato dal Corriere della Sera. Sugli effetti in divenire, per il quadro regionale, si veda invece il duro articolo di Lucio Caracciolo per l’Espresso. Alle considerazioni dello studioso si affiancano i crescenti timori legati alle difficoltà americane di mettere a fuoco una strategia per il Medio Oriente, cosi come sottolinea il Foglio quando parla del fatto che «Obama un piano ce l’ha ma è datato 2008», non meno che al raffreddamento del rapporto tra Washington e Gerusalemme, come sottolinea Anthony Quattrone per l’Avanti! In questa temperie, soprattutto mediatica ma che potrebbe rivelare sviluppi politici molto preoccupanti, gli scrittori israeliani, intesi come voci critiche per antonomasia, sono molto gettonati. Oggi è la volta di Meir Shalev, intervista da Umberto De Giovannangeli su l’Unità. Quale bilancio trarre da giornate di passione e di dolore se dobbiamo soffermarci sulla copertura, a volte cacofonica e invasiva, offertaci da tutti i media? Ragionando a spanne, e quindi con un buon margine di approssimazione, possiamo dire che la maggioranza delle testate (almeno un 80 per cento) ha assunto un atteggiamento fortemente critico, quando non totalmente polemico o addirittura seccamente censorio, nei confronti dell’operato del governo israeliano. Per parte nostra la discriminante di giudizio, tanto più in questo caso, non è dettata tanto dalle manifestazioni di disappunto nei confronti dell’operazione militare quanto dal registro di valutazione che è per tramite d’esse adottato. Quando il biasimo è di ordine morale, allora esso cela una più o meno marcata vocazione delegittimante nei confronti d’Israele. Quando invece ha una natura di ordine politico, si tratta di un giudizio ben più articolato, lontano dalle prese di posizione di principio e attento all’evoluzione concreta dei fatti. Va nel solco di questa seconda intenzione, ad esempio, quanto scrivono Ariel David su il Foglio o, sempre sulla medesima testata, con ispirati toni letterari, Alessandro Schwed. Il confronto sulle diverse accezioni della solidarietà ad Israele è invece raccolto da due articoli per Libero, quello di Giuliano Cazzola e quello di Angelo Pezzana. Paolo Di Motoli, per il Manifesto, testata storicamente polemica con Israele, cerca invece di ragionare sul decision making che sta dietro operazioni militari la cui ragione non sempre risulta a tutti immediatamente intelligibile. Un indice linguistico della severità dei giudizi lo si può peraltro ottenere osservando quante volte ricorra tra gli articoli, nel definire la capitale d’Israele, il nome di Tel Aviv al posto di quello di Gerusalemme. Anche in questo caso, sia pure con poche eccezioni, perlopiù posizionate nella stampa che si riconosce con il centro-destra, predomina il ricorso alla prima piuttosto che alla seconda. Un segno, tanto più in testate storiche, espressione della borghesia italiana, di un orientamento che somma ad antichi pudori anche lievitanti indisponibilità. Non si tratta necessariamente di dinieghi radicali o di ruvide prese di posizione, con l’eccezione di alcuni editorialisti che, tuttavia, proprio per il loro ruolo peculiare, rappresentano perlopiù le opinioni che esprimono e non necessariamente gli indirizzi della testata che li ospita. Rimane il fatto che la vicenda dei giorni scorsi ha creato non pochi imbarazzi riguardo al suo trattamento mediatico. Sia pure con accenni anche molti diversi tra di loro, ciò che ha fatto premio su qualsiasi altro ordine di considerazione è stata la valutazione del «big crash» costituito dal corpo a corpo tra i militanti presenti sulle navi e i soldati inviati ad impedire che queste proseguissero indisturbate verso quella che era la loro duplice meta, raggiungendo due obiettivi: quello manifesto, ovvero esplicitato come «umanitario» (la consegna di un carico di merci per la popolazione di Gaza); quello implicito, ossia la violazione e la rottura del blocco navale, sotto lo scudo di «missione di pace», per evidenziare la debolezza del dispositivo israeliano. Il tragico bilancio di morte è divenuto così l’unico filtro attraverso il quale leggere e interpretare l’intero scenario. Comunque sia andata, il risultato si sta rivelando un esito fortemente premiante per quanti si riconoscono nella causa propalestinese. Al di là del pur dovuto cordoglio, la sintesi politica immediata demanda a questo tratto. A volere confermare l’assunto che il conflitto tra israeliani e palestinesi si gioca con i corpi degli uni e degli altri ma si vince sul piano delle politiche dell’immaginario e sul versante della guerra delle rappresentazioni. Anche per questo non se ne vede la fine, non almeno in tempi ragionevoli. Ma cos’è veramente ragionevole nel Medio Oriente di oggi?
 
Claudio Vercelli