Qui Ferrara – Una birra con David Polonsky

Racconta la bellezza e il dolore della terra d’Israele. David Polonsky è uno degli ospiti più attesi qui a Ferrara, al Festival della rivista Internazionale. L’artista israeliano più conosciuto e amato, art director dell’acclamatissimo film d’animazione Valzer con Bashir, o, come preferisce dire lui, “quello che fa i disegni”, ha raggiunto la notorietà mondiale proprio grazie al capolavoro del cineasta Ari Folman.
Nel successo della formula del cartone gioca un ruolo essenziale la profonda sensibilità poetica per i sentimenti dei personaggi, dote già ampiamente dimostrata da Polonsky nel corso della sua attività. La resa di importanti sfumature emozionali, della dimensione oniricheggiante dei ricordi del protagonista, della poesia di certe luci mediorentali, dall’alba sui colli libanesi ai bagliori della guerra, bellissimi e tremendi, non sarebbe stata possibile senza l’abilità di questo genio dell’animazione. L’impatto sullo spettatore non sarebbe stato altrettanto intenso e indimenticabile senza la sua arte. Le suggestioni visive che Polonsky propone in questo lavoro sono l’unico mezzo espressivo cui si è potuta affidare la memoria del regista.
E tutto questo il pubblico lo comprende bene. La coda per entrare nello splendido teatro comunale di Ferrara arriva fin dall’altra parte della piazza: Internazionale ha invitato, con Polonsky, Joe Sacco, fumettista, campione del comics journalism, controverso autore di Palestina: una terra occupata, e Patrick Chapatte, fumettista elvetico-libanese, collaboratore di “International Herald Tribune”, “Neue Zürcher Zeitung” e “le Temps”, nonché autore di Dans l’enclos de Gaza. Il giornalista Luca Sofri parla, con questi tre grandi artisti, del fumetto come nuovo modo di raccontare il Medioriente, e in generale le situazioni di crisi nel mondo. Infatti anche Polonsky, che non nasce precipuamente come fumettista, si è cimentato in questo genere: è da poco uscito il graphic novel tratto da Valzer con Bashir.
S’interroga Sofri, “qual’è il rapporto del disegnatore con la verità giornalistica?”. La questione è di non poco conto. Come garantire l’oggettività e la completezza di un reportage grafico? L’agguerritissimo Joe Sacco è costretto a concordare con Polonsky quando dice che “già la scelta di disegnare significa prendersi delle libertà, e il punto di vista dell’artista è determinante. Si può cercare di essere onesti, non oggettivi.” Sacco non può contraddire: “è vero, ma io, anche da giornalista, preferisco mettermi nei panni della vittima”, convinto com’è che ce ne sia una sola.
A differenza di Sacco e Chapatte, l’israeliano rifiuta il titolo di giornalista: “Io sono un artista – dice – racconto le storie di altri, le loro e le mie emozioni. Se questo lavoro ha valore giornalistico, il mio contributo non riguarda questo aspetto”.
Mantiene un profilo basso, David Polonsky, sembra quasi intimidito. Nonostante le non poche sollecitazioni del pubblico evita accuratamente di parlare di politica.
È solo dopo la fine della conferenza, davanti ad una birra fredda, che decide di confidarsi. Ci parla di tutto, del suo mestiere, della sua vita, del suo rapporto con Israele e con la religione ebraica, tocca anche argomenti intimi, discorre coi giovani giornalisti e col collega Chapatte come se fossero suoi amici, senza filtri, senza imbarazzi. Un gigante buono, educato e sensibile. Il suo faccione amichevole e un po’ melanconico non nega un sorriso a nessuno. É un artista di fama mondiale, tiene seminari nelle più importanti accademie d’arte degli Stati Uniti e al contempo è così alla mano che ti fa dimenticare, durante la conversazione, chi è veramente. “Sono stufo di sentirmi parlare” – dice, e sembra quasi che abbia più voglia di ascoltare. Vuole conoscere le storie dei suoi interlocutori, l’intervistato che fa domande: “le persone, i loro gesti, le espressioni e i sentimenti: è questa la materia prima del mio lavoro”.
Anche in questo contesto più ristretto non gli garba troppo l’argomento politico: non esita a definire atroci le sofferenze causate dall’ultimo intervento dell’esercito israeliano nella striscia di Gaza, ma ci tiene a ribadire l’irrilevanza della sua opinione politica. Lui è un’artista, “e non mischio mai arte e politica”. Sa che il film di Folman “è stato duramente criticato dalla destra, ma io non voglio avere nulla a che fare con le polemiche. In Israele ognuno ha esperienze diverse, storie diverse, opinioni diverse. Io mi sono limitato a raccontarne una, facendo solo il mio lavoro di disegnatore. Non sono un politico, né uno storico, né un giornalista. Posso al massimo dire di essere soddisfatto se il mio film ha costretto la gente a parlare di una questione di cui prima si parlava poco e malvolentieri.”
Ora il film, sull’onda del successo mondiale, è diventato un libro. O meglio un graphic novel, un romanzo illustrato. “Di solito non faccio fumetti, ho sperimentato sempre tanti generi e tanti stili, il fumetto è la prima volta. Ho scoperto che può celare un grande lavoro intellettuale, a differenza del film che invece punta più sull’emotività, con la musica e gli effetti. Devo dire che l’idea del graphic novel non è stata mia – confessa – me l’ha proposta l’editore, ma sono molto contento di averci lavorato. È stata un’esperienza artistica interessante.”
È vero, Polonsky si è cimentato in tanti generi artistici differenti, dall’animazione a computer ai ritratti, dalla scultura ai disegni a matita. Da questo punto di vista è paragonabile ad alcuni artisti a tutto tondo dell’epoca rinascimentale. “Non penso, ora, di fossilizzarmi su un genere unico. Per esempio il progetto cui sto lavorando adesso è un libro per bambini.” Un ritorno alle origini: infatti il giovane promettente israeliano, iscrittosi all’accademia Bezalel di Gerusalemme dopo aver fallito il test di ammissione alla facoltà di biologia, si mise presto in luce, all’inizio della carriera e poi per diversi anni, con bellissime illustrazioni per i libri per bambini. “Non sono mai stato chiuso alle sperimentazioni, anzi m’incuriosiscono e m’intrigano”.
Ma, nonostante le sue esperienze all’estero e la moda dei giovani artisti di espatriare, sarà difficile per Hollywood portarlo fuori dal suo paese. Non è un uomo di fede, David Polonsky, lo dice a chiare lettere, ma il suo legame con la Terra Promessa è indissolubile. “Sono stato alcuni mesi a New York, che per me è un ambiente molto stimolante. Ma tornare a Tel Aviv è stata una gioia. Israele, con tutti i suoi difetti, fa parte della mia storia, umana e artistica. Mi piace lavorare lì, è per me anche fonte d’ispirazione”. Ci confida che, per esempio, gl’indimenticabili bagliori arancioni che si vedono nella scena madre del film “riproducono quelli che vedevo io da Haifa, a otto anni”. L’infanzia l’ha trascorsa nella città del nord, vicino al confine libanese, ed è rimasto indelebile nella sua memoria “il ricordo di quei bagliori che riempivano il cielo, che ti davano l’impressione che ci fosse qualcosa di superiore, che dominava tutto.”

Manuel Disegni