La pioggia, i babilonesi e il calendario
Durante la Guerra del Golfo, e successivamente fino ad oggi durante l’occupazione americana dell’Iraq, i rabbini cappellani militari dell’esercito USA distaccati in Iraq (effettivamente pochi) hanno ironicamente notato di essere i rabbini per i quali il mondo ebraico prega di più. Questo perchè nel minhag ashkenazita il Sabato mattina, dopo la lettura della Torà, si legge una preghiera speciale (Yequm Purqan) per i “Signori Rabbini della terra d’Israele e di Babilonia”.
Oggi, per trovare dei rabbini in Babilonia, bisogna ricorrere ai cappellani militari USA, ma secoli fa la stragrande maggioranza dei rabbini era concentrata in quella regione, che dettò legge e ancora continua a farlo su tutto il mondo ebraico. Al punto tale che anche nei dettagli, come un’antica preghiera per qualcuno che non c’è più, continua ad essere recitata ancora. Questa storia della leadership babilonese e dei suoi influssi a lungo termine ritorna nei giorni autunnali del calendario ebraico, evocando riflessioni sui meccanismi di trasmissione, sviluppo e mantenimento dei riti ebraici. Vediamo alcune parti di questa storia, centrata sul mese dell’anno su cui si parla di meno, Marcheshwan e l’inizio del mese successivo, Kislew.
Triste sorte quella di Marcheshwan, il mese corrispondente a Ottobre – Novembre del calendario solare. Secondo mese dell’anno, se si cominciano a contare i mesi da Tishri, o ottavo, se il conto comincia da Nisan. Tutti i mesi ebraici hanno una festa, lieta o triste che sia, tranne un mese, Marcheshwan, che non ha neppure una festa, un giorno speciale da ricordare. O forse sì, come vedremo poco avanti. Ma mai comparabile neppure al Lag Baomer che salvava il mese di Yiar (prima che arrivasse Yom ha’Atzmaut). Forse è una rivalsa rispetto al mese precedente, Tishri, che di feste ne ha fin troppe. Eccolo dunque questo mese un po’ grigio, piovoso, in cui le giornate sono diventate improvvisamente corte, in cui comincia a far freddo ma non è neppure inverno. Non a caso il suo nome può essere diviso in due, Mar – Cheshwan, dove Mar in ebraico può significare “signore”, e andrebbe ancora bene, o “amaro”. Il nome però non è di origine ebraica, è come per gli altri babilonese, forse deriva da una deformazione di quello che in ebraico è yerach sheni, secondo mese. Nella Bibbia il nome antico ed ebraico era quello di Bul, carico di significati. Perchè proprio nei primi capitoli della Torà si parla di diluvio, mabul. Che comincia il secondo mese e dura almeno nella prima fase 40 giorni. Il secondo mese potrebbe appunto riferirsi a Bul – Marcheshwan, mentre la mem iniziale di mabul vale 40 in ghematria. Diluvio in ebraico è quindi 40-Bul. Altro bel ricordo per questo mese. La verità è che i suoi principali riferimenti simbolici sono collegati all’acqua, in particolare a quella che scende dal cielo, la pioggia.
Una pioggia che è essenziale all’economia agricola e alla vita, ma che in Eretz Israel si fa desiderare. La festa di Sukkot che di poco precede l’inizio di Marcheshwan ha come tema centrale la richiesta della pioggia. Proprio alla fine di Sukkot, a Shemini ‘Atzeret, nella seconda benedizione della Amidà, che celebra le prodezze divine, si comincia a parlare di Colui che “fa soffiare il vento e scendere la pioggia”, e lo si farà fino all’inizio di Pesach. Ma perchè cominciare alla fine di Sukkot e non all’inizio? Perchè a Sukkot a Gerusalemme ci sono moltitudini di pellegrini, che sono certamente interessati all’irrigazione dei loro campi, ma che almeno vorrebbero godersi i giorni di vacanza all’asciutto. Attenzione, quella della seconda benedizione dell’Amidà non è ancora una richiesta di pioggia, è solo una lode al Signore che la fa scendere. La richiesta vera e propria di “dacci la pioggia e la rugiada” la si fa nella nona benedizione. Ma non la si fa subito a Sukkot, neppure alla sua fine, ma solo qualche giorno dopo. E’ qui che entra in gioco Marcheshwan, per la precisione il suo settimo giorno. Che cosa ha di speciale? Il fatto che dista 15 giorni dalla fine di Sukkot. Il tempo necessario, per i pellegrini che venivano dalla Babilonia a Gerusalemme, per arrivare alle rive dell’Eufrate. C’erano diverse strade possibili, preferibili alla traversata del deserto giordano. Di solito si puntava a nord est verso Damasco e di qui all’Eufrate, a Tapsaco più a nord oppure a Dura passando per Tadmor – Palmira. Una distanza di circa 500 chilometri che le carovane coprivano alla velocità di 30-40 km al giorno. Arrivati all’Eufrate, poi si prendeva la nave. Insomma ci volevano in tutto circa 15 giorni partendo da Gerusalemme e un viaggio senza pioggia era certamente preferibile. Per questo si aspettava il 7 di Marcheshwan per chiedere la pioggia in Israele. Perchè i viaggiatori non si bagnassero. Leggendo nelle nostre fonti (principalmente il trattato di Ta’anit) tutti questi racconti, è evidente che abbiamo fatto qualche progresso nella velocità (basterebbero 5- 6 ore di automobile su buone strade, due ore di aereoplano avanzerebbero), ma non nella civiltà: posti come Damasco, Palmira, e la Babilonia, odierna Iraq, sono oggi per gli ebrei poco praticabili. Per ora un ricordo mitico, speriamo che presto non lo sia più.
Ma torniamo ad Eretz Israel. Qui, se la pioggia non era arrivata entro altri 10 giorni (dal 7 di Marcheshwan) la situazione diventava preoccupante per cui scattava la procedura di preghiere e digiuni scanditi con uno schema preciso. La situazione era diversa altrove. Ogni regione della Diaspora aveva e ha bisogno di acqua, ma in molti luoghi questa scende più che abbondante e non c’è bisogno di affrettarsi nella richiesta. Di qui il principio per cui ogni regione dovrebbe cominciare a chiedere la pioggia se e quando le serve effettivamente. Ma una tale liberalità, che pure è riscontrata nelle fonti antiche, non è durata a lungo. Nei primi secoli dell’era volgare la maggioranza degli ebrei, e soprattutto la sua leadership spirituale era spostata verso la Babilonia, e quindi le sue necessità e i suoi tempi dettavano legge dappertutto. Veramente non dovunque. In alcuni posti c’è stata anche per molti secoli un’influenza diretta delle regole di Eretz Israel e solo dopo lotte e discussioni hanno prevalso i Babilonesi. E’ quello che è successo ad esempio in Italia, dove gli studiosi sono in grado di identificare in alcune regole del minhag italiano o negli scritti di suoi autorevoli decisori le norme della terra di Israele, spesso più rigide rispetto agli accomodamenti dell’esilio babilonese. Non è improbabile che per la pioggia nell’Italia del primo millennio si seguisse una regola autonoma. E’ successo comunque che i babilonesi stabilirono la loro regola e che questa poi si sia imposta, per motivi di leadership, ma anche per semplificazione, su tutto il mondo della Diaspora. Ma quale era dunque la data giusta in Babilonia per chiedere la pioggia? Il sessantesimo giorni dopo l’equinozio autunnale (in ebraico tequfat Tishri). Qui scatta un meccanismo molto strano. Perchè per far riferimento alla data dell’equinozio, che è un evento legato al sole, si usa un calendario solare e non quello ebraico lunare. In pratica il calendario giuliano, quello istituito da Giulio Cesare. La data dell’inizio della preghiera è quindi ogni anno il 22 Novembre, a due mesi di distanza dall’equinozio autunnale (la maggioranza dei libri di preghiera stampati non parlano della data civile, si limitano a dire “a 60 giorni dalla tequfà”). Ma il calendario giuliano ha i suoi difetti. Si basa sulla durata dell’anno pari a 365 giorni e 6 ore (che corrisponde anche ad una opinione rabbinica, quella di Shemuel), ma che non è precisa, essendo un po’ in eccesso rispetto alla durata reale. Se ne accorsero nel Medioevo, quando videro che le date degli equinozi e solstizi non corrispondevano più nella realtà, venivano prima. E finalmente nel 1582 papa Gregorio fece la sua riforma del calendario (chiamato a suo nome gregoriano), recuperando la differenza maturata in circa sedici secoli con un taglio di dieci giorni nell’ottobre di quell’anno ed eliminando l’anno bisestile negli anni centenari, tranne in quelli divisibili per 4 (come il 1600 e il 2000) che rimangono bisestili. Ma che successe della nostra preghiera del 22 Novembre? Ormai quasi tutto il mondo ebraico aveva accettato la regola dei babilonesi, sia per il concetto del sessantesimo giorno, che riferendolo a un giorno preciso del calendario civile. C’erano quindi due possibilità. La prima, prendere atto che il nuovo 22 Novembre, quello gregoriano, fosse a 60 giorni dall’effettivo equinozio autunnale e quindi recitare la formula il 22 Novembre gregoriano. La seconda, lasciare le cose come stavano e dire la benedizione nel giorno gregoriano corrispondente al 22 Novembre giuliano, il giorno 2, cominciando dall’ ‘Arvit della sera prima, il 1 Dicembre. La scelta cadde sulla seconda soluzione. Per tanti motivi, dalla riluttanza di cambiare e di accettare una decisione papale a quella di mantenere una certa uniformità in tutto il mondo ebraico. Perchè dobbiamo pensare a quello che successe in seguito alla riforma gregoriana. Non fu subito accettata dappertutto, e c’è voluta la rivoluzione russa (che ancora è chiamata di Ottobre, quando per noi era già Novembre) per cambiare calendario nell’Europa cristiana ortodossa. Se per esempio gli ebrei italiani avessero anticipato la preghiera al 22 Novembre gregoriano, ci sarebbero stati 10 giorni di differenza in anticipo rispetto agli ebrei di molti altri stati europei che rimanevano al vecchio calendario. Affinchè tutti gli ebrei della Diaspora partissero insieme nello stesso giorno, rimase il vecchio riferimento al calendario giuliano. La differenza iniziale di 10 giorni è aumentata di un giorno a ogni cambio di secolo, che è bisestile nel giuliano ma non nel gregoriano, con l’eccezione del 1600 e del 2000, bisestili in entrambi i calendari. In questo secolo, come nel precedente, si continua a partire con la preghiera la sera del 4 Dicembre (il 5 alla vigilia dei bisestili) e questo non ha più nulla a che fare con i 60 giorni dall’effettivo giorno dell’equinozio autunnale. Che si trattasse di un calcolo non preciso, già lo si sapeva; di calcoli più precisi la tradizione è consapevole da tempi remoti; in questo caso l’errore viene mantenuto perchè in definitiva si tratta di una convenzione, di una data più simbolica che reale, di un compromesso per mantenere l’unità della preghiera in tutto il mondo ebraico. Ma comunque è interessante e motivo di curiosità che si continui a mantenere una data giuliana.
Piccoli misteri del mese “signore” e “amaro” e di quello che lo segue, dove l’attenzione è tutta presa da Hannukkah. Anche là c’è un problema con il calendario e con il sole, ma ne discuteremo un’altra volta.
Rav Riccardo Di Segni
Questa è la versione integrale di un intervento del Rav Di Segni che apre la pagina di cultura ebraica nel primo numero di Pagine Ebraiche – Il giornale degli ebrei italiani Novembre 2009-Cheswan 5770
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