Dire “tu”
La parola ebraica attàh, “Tu”, scandisce la preghiera e ritma le benedizioni, facendo seguito immediatamente a Barùkh (“Benedetto sei Tu…”). Anche una parola apparentemente semplice come attàh non è priva di significati teologici e richiede una particolare attenzione. Le prime due lettere di attàh sono alef e tav. Queste due lettere sono anche la prima e l’ultima dell’alfabeto ebraico; segnano dunque l’inizio e la fine e perciò – come insegnano i maestri della tradizione qabbalistica – rappresentano l’intera Creazione. Tutto ciò che è stato, è e sarà, accade attraverso le lettere alef e tav, ne porta il sigillo. Ma messe l’una accanto all’altra le due lettere danno et, la particella usata in ebraico per il complemento oggetto. In breve: alef e tav da sole si riferiscono al mondo trattandolo come un oggetto. Tutto resterebbe inanimato se in attàh non ci fosse la terza lettera, la he, quasi solo un soffio, che rinvia al Nome di D-o. La he finale è l’anima della parola attàh, è il soffio che, mentre diciamo attàh, “Tu”, ci porta all’esterno, ci fa uscire dal nostro sé, ci congiunge con l’Altro e segna così anche il passaggio dal rapporto con l’oggetto inanimato a quello con un altro soggetto o, meglio, con il Tu.
Questo vuol dire che attàh è una parola sacra. Nel Tu, che rivolgiamo quotidianamente agli altri, risuona il “Tu eterno” che rivolgiamo a D-o nella preghiera. Nel Tu di ogni frase quotidiana c’è un frammento nascosto di preghiera. Dire Tu non è pronunciare una parola qualsiasi; ma significa far riecheggiare il soffio del vocativo assoluto con cui possiamo dire “io” riconoscendo l’altro come “tu”. È la riflessione sulla parola ebraica attàh, di uso comune nell’ebraico moderno, ad aver spinto Martin Buber nel suo famoso saggio Io e tu, a fare di questa parola ebraica un’esperienza universale.
Donatella Di Cesare, filosofa