Qui Roma – Bice Migliau, una vita dedicata al Centro di cultura

Ad annunciarlo è stato il Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, qualche settimana fa, durante una delle ultime iniziative organizzate da lei, ma è difficile pensare che in pensione ce la lasceranno andare davvero. Bice Migliau, genovese d’origine naturalizzata romana, da 36 anni alla direzione del Centro di cultura della Comunità Ebraica di Roma ha concluso il suo incarico il 1 novembre.
“Per me il bilancio è positivo, non ho alcun rimpianto, ho fatto sempre quello che mi piaceva e mi interessava fare”, dice quando le chiediamo di parlarci di questi quasi 40 anni di lavoro che sono anche 40 anni di storia della nostra Comunità.
“Il Centro di cultura è stato creato nel novembre 1973 con lo scopo di promuovere la conoscenza e la diffusione della cultura ebraica sia in ambito comunitario sia a livello pubblico e di costituire un supporto per il rafforzamento dell’identità ebraica” spiega.
Quando è iniziata la tua avventura?
La mia vita professionale è iniziata con il Centro di cultura e viceversa. L’iniziativa fu presa dalla Comunità di Roma con il sostegno nei primi anni, dell’American Joint e del Dipartimento Educazione del WZO israeliano. Negli anni ’70 infatti alcuni dirigenti comunitari in contatto con le istituzioni educative ebraiche internazionali avevano percepito l’atmosfera di crescita della Comunità non solo da un punto di vista demografico, ma come richiesta di servizi sempre più qualificati. Ho accettato di creare il Centro per la novità del progetto che mi ha affascinato. Mi ero laureata, ero stata in Israele per la specializzazione. Questo progetto mi piaceva ed era per me una sfida. Ho cercato di interpretarlo di capire quali erano le esigenze. Era un periodo particolare per la Comunità ebraica romana che cercava di organizzare dei servizi strutturati con una certa continuità. Il progetto doveva essere adeguato alle esigenze interne, ma proiettato all’esterno. Era un tipo di progetto molto comune in America ma assolutamente nuovo in Italia. I primi tempi sono stati molto difficili perché c’erano delle resistenze.
A quali resistenze ti riferisci?
Ti faccio un esempio, nel 1975 avevo visto una mostra sulla resistenza e volevo farla a Roma. Fui gelata dalla poca fiducia delle nostre istituzioni. Con molta determinazione organizzai questa mostra con l’aiuto di giovani volontari. Mi feci dare la sala della sede di Sant’Egidio. Lavorai senza sosta per settimane. Il giorno dell’inaugurazione della mostra uno dei dirigenti comunitari mi disse:”E’ sicura che il pubblico verrà?” In quel momento vidi entrare Primo Levi con Ferruccio Parri a braccetto ed ho capito che avevo svoltato.
E poi che cosa accadde? Come hai sviluppato il tuo lavoro?
Negli anni ’70 a Roma l’attività culturale era legata a singole iniziative delle varie associazioni comunitarie. Mancava un progetto culturale complessivo. Il Centro si è articolato fin dall’inizio in due settori che lavorano tuttora in parallelo: quello di promozione di attività culturali e quello relativo alla documentazione e alle risorse. A Roma il progetto iniziale ha assunto una connotazione innovativa rispetto al panorama europeo in cui erano attivi centri comunitari e centri di risorse separati e distinti: la creazione del primo centro che avesse entrambe le caratteristiche ha fatto da apripista a modelli istituzionali come il Centro A.J. Heschel di Firenze che sono stati istituiti dopo di noi. L’idea di fondo era quella di far crescere culturalmente la Comunità, che gli adulti seguissero un percorso di alfabetizzazione perché sentivano molte parole in ebraico dai figli che le imparavano a scuola, ma non ne conoscevano il significato. Ho cercato allora di organizzare un progetto a spirale che partisse dal poco e aumentasse gradualmente. I primi cicli di incontri per adulti si sono infatti sviluppati nella spiegazione a livello divulgativo di concetti quali il midrash o l’halakhà. Oggi questi termini sono largamente conosciuti, ma allora i ragazzi li apprendevano a scuola o nelle associazioni giovanili, ed erano pressoché sconosciuti agli adulti. Un altro percorso è andato alla riscoperta delle radici abbiamo organizzato i primi sedarim didattici di Rosh ha Shanà e di Tu bi Shvat, completamente sconosciuti alla gran parte della Comunità.
Hai detto che l’attività del Centro doveva essere adeguata alle esigenze interne, ma proiettata verso l’esterno, in quale modo si è realizzata questa seconda parte?
Sì infatti. Tutto è cambiato dopo l’attentato del 1982. Era arrivato il momento di aprirsi all’esterno. Ma anche in questo caso abbiamo cercato di trasmettere un messaggio diverso da quello che qualcuno si sarebbe aspettato: siamo stati i primi a non parlare soltanto di Shoah, tutte le volte che siamo stati chiamati per interventi sulla Memoria, abbiamo cercato di difendere il ruolo originale e attivo della Comunità. Una delle attività organizzate in questo senso sono state le prime feste in piazza subito dopo i divieti di Cossiga di manifestare, cosa non facile. Il quartiere ebraico era stato punto di raduno solo nei momenti drammatici, abbiamo pensato di aprire al pubblico in un momento gioioso, per far conoscere un volto della Comunità Ebraica diverso da quello che era solita mostrare.
Che cosa vedi nel futuro del Centro di cultura, che cosa suggeriresti al tuo successore?
Vedo le sfide e da questo punto di vista credo che il Centro potrà continuare ad aiutare all’esterno, ma con delle prospettive diverse, perché siamo ormai in una società pluralista.
L’ebraismo ha delle posizioni originali in molti ambiti, dobbiamo creare occasioni di confronto, ma dire la nostra. Inviare messaggi molto chiari, meno legati all’evento politico del momento. Il messaggio deve essere culturale, elevato. Non siamo più l’appendice silenziosa della maggioranza. Bisogna uscire dalla logica maggioranza minoranza, trovo che dobbiamo dire la nostra ed in maniera qualificata.
Per l’interno anche qui si apre una sfida assistiamo a un divario molto grosso fra chi si avvicina e chi si allontana, tutta la progettazione futura va inquadrata in questo modo.
Ho pensato sempre all’Ucei e alla Comunità come una federazione di famiglie noi dobbiamo dare a ciascuno quello di cui ha bisogno.

Lucilla Efrati