Rabbino, filosofo, giornalista. La lezione di Steven Schwarzschild
Mentre resta aperto il dibattito sulla problematica simbiosi dell’ebraismo tedesco, poco noti sono nel complesso gli esiti che ne sono scaturiti dall’incontro con il “nuovo” mondo americano. Una delle figure più interessanti è quella di Steven Samuel Schwarzschild (1924-1998), rabbino e filosofo insieme. Fu tra i primi rabbini a far ritorno in Germania nel 1948 per riorganizzare la comunità di Berlino dove pensò che fosse anzitutto necessario un organo di stampa e contribuì perciò a dar vita al periodico: Allgemeine Wochenzeitung der Juden in Deutschland. In America e in Israele ha rifondato la filosofia ebraica.
Sulla scia di Maimonide e di Hermann Cohen (alla cui scuola si era formato) Schwarzschild ha sostenuto che essere ebrei vuol dire mantenersi fedeli, nel giudizio, alla “trascendenza del D-o Unico”. Il che significa riconoscere che la realtà immanente che ci circonda va modificata. Ecco perché – afferma in uno dei suoi saggi più belli – “la halakhà è l’espressione religiosa di una rivoluzione permanente”. Erede del messianismo ebraico-tedesco, Schwarzschild si è fatto portavoce, insieme a Lévinas, di un umanismo ebraico e di una filosofia della trascendenza che, senza compromessi, critica ogni proclamazione dell’immanenza nella storia – tanto più in quella del popolo ebraico.
Chi usa accenti patriottici, è pervaso da una ideologia nazionalistica, ed è pronto a sanzionare anche il torto e l’ingiustizia in nome di questo nazionalismo, non è per Schwarzschild neppure ebreo.
Donatella Di Cesare, filosofa