Qui Torino – Culture del Sionismo, la delusione di Gershom Scholem
“Non possiamo mai arrivare del tutto a casa”. È uno sconsolato Gershom Scholem a pronunciare questa frase. È da poco giunto in Israele.
Fra le tante “culture del sionismo”, presentate nell’ambito del significativamente omonimo convegno torinese, c’è anche il sionismo fallito. Il sionismo smarrito, il sionismo decaduto, degradato da suprema istanza religiosa e mistica a mero nazionalismo statuale, profano e secolarizzato. “Non tutti i giorni hanno una sera”, perennemente incompiuto è il destino del popolo ebraico, eterna la sua vocazione diasporica.
Ampio spazio, nei lavori del convegno sul sionismo organizzato dall’Università del Piemonte orientale insieme alla Fondazione Camis de Fonseca e al Goethe Institut, è dedicato ad un percorso sulla figura di Gershom Scholem. A tenere le fila del pomeriggio di studi sono un docente di giudaistica all’università di Vienna, professor Klaus Davidowicz, una studiosa di cultura ebraico-tedesca, professoressa Claudia Sonino, e una studiosa di filosofia e storia intellettuale ebraica, docente universitaria in Germania e rabbinessa in una sinagoga riformata di Gerusalemme, Eveline Goodman-Thau.
Il sionismo di Scholem si discosta da tutte le correnti politiche sviluppatesi o confluite nel seno del movimento fondato da Teodoro Herzl. Egli non era tanto interessato all’aspetto politico del sionismo, quanto a quello spirituale, culturale, sociale. “Sion era per me piuttosto un ideale mistico-religioso che geografico”. Appare veramente disperato, nei suoi scritti degli anni venti e trenta, per la totale perdita della dimensione spirituale da parte del mondo sionista. Da una parte lo sciovinismo di destra di Jabotinsky, dall’altra le correnti d’ispirazione socialista, entrambi hanno messo da parte il sogno della rinascita del popolo ebraico, del suo ricongiungimento con le radici, della preparazione dell’avvento del Messia. Hanno confuso l’ideale di Sion con un vuoto nazionalismo secolarizzato, non hanno capito che Israele non deve essere uno Stato come gli altri, ma un posto vibrante di vitalità mistica, un “focolare per la rinascita spirituale del popolo ebraico”, vessato e sulla via dell’assimilazione. La costruzione di uno un stato in Palestina, alimentato da una copiosa immigrazione piccolo borghese occidentale e ispirato a una gretta ideologia nazionalista, è la definitiva capitolazione del sogno di Sion. Sul piano spirituale non è cessata la condizione di Esilio. Di qui la paradossale “disperazione del vincitore”.
Gershom Scholem nasce a Berlino, nel 1897, in una famiglia ebraica appartenente alla borghesia liberale tedesca, del tutto assimilata. Fin da giovanissimo, dall’età del bar-mizvah, avverte l’esigenza di riavvicinarsi alle radici ebraiche abbandonate dalla famiglia. Ciò lo porterà a vivere un profondo conflitto culturale, diviso tra due realtà inconciliabili: la febbrile ricerca di un’identità ebraica culminerà nella definitiva rottura con il padre. “Quella borghesia deve sanguinare”, scrive in un’invettiva particolarmente violenta contro quel mondo dal quale, con dolore, si congeda.
Vede nel sionismo un’alternativa all’assimilazionismo che ha colpito il popolo d’Israele nella diaspora occidentale. Per Scholem la rinuncia alla tradizione ebraica è un colossale autoinganno, ribellarsi al quale è preciso dovere di ogni ebreo, poiché ne va del destino di un intero popolo. Per queste ragioni si avvicina, parallelamente, agli studi talmudici e ai gruppi giovanili sionisti.
Studia filosofia e matematica in Germania e si entusiasma per il pensiero di Martin Buber; “Ogni ebreo deve passare la sua bubertà”, scriverà anni dopo. Negli ambienti che frequenta conosce molti Ostjuden, ebrei dell’Est, influenzati dalla cultura chassidica che tanta importanza avrà nella sua vita. Stringe anche una profonda amicizia e un saldo legame intellettuale con Walter Benjamin, il celebre pensatore ebreo marxista. Benjamin è uno dei fondamentali punti di riferimento nella vita di Scholem; la loro intesa spirituale è rimasta scritta nella storia intellettuale dell’ebraismo. Nel 1975 Scholem pubblicherà “Walter Benjamin, storia di un’amicizia”.
Diviene uno dei membri più attivi dei movimenti giovanili sionisti ma contemporaneamente approfondisce gli studi religiosi, indirizzandoli verso il misticismo messianico.
Nel 1923 compie l’alyiah, la salita a Eretz Israel, con appresso i duemila volumi della sua biblioteca, e va ad abitare a Gerusalemme, non lontano dal quartiere ortodosso di Meah Shearim. È con l’arrivo in Israele che si consuma la sua tragica disillusione. Essa riguarda la mancanza di un contenuto spirituale nelle azioni e nelle speranze dei pionieri, interessati soltanto a perseguire obiettivi politici, alla creazione di un’entità statuale sul suolo palestinese che poco ha a che fare con la Terra Promessa, per come è intesa nella prospettiva messianica. Scholem si sente “una sentinella sull’orlo del nulla”. Il sionismo mistico-religioso è stato messo in scacco da istanze politiche e bellicose. “Si è persa un’occasione irripetibile – scrive prima della seconda Guerra Mondiale – è fallita la funzione storica del sionismo. E questo a causa della brama nazionalista”. Decide così di fondare Brit Shalom, un gruppo pacifista che propugna una soluzione binazionale, vuole una convivenza pacifica di arabi ed ebrei sulla medesima terra. Intrattiene accese polemiche con tutto il mondo intellettuale ebraico; celeberrimo un infuocato carteggio con Hannah Arendt degli anni quaranta. “E’ quasi meglio Ben Gurion di una comunista antisionista come te”, le scrive.
Per lo sconforto cessa l’attività politica per dedicarsi esclusivamente a quella di studioso presso l’Università ebraica di Gerusalemme.
Sin dalla giovane età la ricerca della propria identità e delle proprie radici gli aveva suscitato un forte interesse storico. Il campo in cui indirizza la sua ricerca è quello della Qabbalah, la tradizione esoterica degli ebrei dell’Europa orientale. Diviene il più importante storico della Qabbalah e compie un’operazione culturale importantissima: riporta alla luce il mondo del Chassidismo, riscopre una parte pressoché dimenticata della storia ebraica, spesso disprezzata e rinnegata come oscurantista, fino ad allora quasi del tutto sconosciuta all’ortodossia occidentale. S’interessa al particolarmente al sabbatianesimo, l’eresia di Shabbetay Zewi, il falso Messia apostata vissuto nel XVII secolo. Traduce e commenta lo Zohar, il Libro dello Splendore, il testo più importante della tradizione mistica ebraica redatto nel XII secolo da rabbini castigliani.
Ma il pathos presente nella sua opera è spia di un interesse diverso da quello dello studioso. La vita di Scholem è una ricerca di sé stesso, del proprio ebraismo. E la sua speranza è unicamente la rifondazione del popolo ebraico in Eretz Israel. Egli vede nella Qabbalah, nella cultura misterica e spirituale, improntata a un fervente messianesimo, l’elemento vivificante dell’ebraismo, la forza che gli ha consentito di sopravvivere spiritualmente nonostante le condizioni della vita diasporica. A una generazione per la quale le realtà dell’esilio e della precarietà dell’esistenza diventavano sempre più opprimenti e crudeli, la Qabbalah, con la profondità e la larghezza delle sue visioni, offre risposte di incomparabile valore, che illuminano il senso dell’esilio. Ma l’Esilio vero, per Scholem, è spirituale. E la storia gli ha dimostrato che il popolo ebraico non può giungere a casa, il suo destino rimarrà incompiuto. “Non tutti i giorni hanno una sera”.
Manuel Disegni