Levinas e il suo atto d’accusa alla filosofia occidentale

Violenza e metafisica è un saggio profondo e suggestivo che Jacques Derrida ha dedicato al pensiero di Emmanuel Levinas, pensiero ebraico cresciuto “in fondo all’aridità”, “in mezzo al deserto”, che in pieno Novecento ha messo in questione la filosofia greca, fin nella sua quintessenza: la metafisica. Per questo Levinas, piuttosto che riprendere Platone, è partito dal Talmud, il contributo ebraico alla cultura universale, e ne ha interrogato i trattati alla luce delle questioni filosofiche attuali. Lo ha guidato non una presunzione, ma una doppia aspirazione: quella di portare il Talmud nella filosofia, la filosofia nel Talmud.
Dalla critica a Heidegger, documentata nel saggio del 1935 Dell’evasione, dove si delinea già l’esigenza di uscire da sé per andare verso l’altro, fino a Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo del 1936, tentativo riuscito – come ha sottolineato Giorgio Agamben – di indicare nel nazismo la possibilità estrema della barbarie, del tutto contigua alla filosofia occidentale, Levinas ha denunciato più volte la prigione dell’essere che è anche la prigione dell’identità: “l’essere è”. Così è cominciata la filosofia occidentale che sembra non andare più in là di questa brutale affermazione dove l’esistenza è un assoluto che non richiede null’altro. “Ogni civiltà che accetta l’essere, la disperazione tragica che comporta ed i crimini che giustifica merita il nome di barbara”.
Ancor più dopo la Shoà, già a partire da Totalità e infinito del 1961, Levinas ha sottolineato il tratto violento della filosofia occidentale: la volontà di appropriarsi di ciò che è altro da sé, di inglobarlo, assimilarlo, totalizzarlo. La verità è il risultato di questo gesto di sopraffazione con cui si volge l’altro in qualcosa di proprio. Per la prima volta la filosofia occidentale viene accusata a chiare lettere di un totalitarismo ego-centrico sempre vittorioso sulle differenze altrui. Auschwitz non è che la conclusione “logica” di questa filosofia della totalità dove il sapere si è sempre identificato con il potere: quello del soggetto che ha preteso di essere il legislatore dell’universo, di sistemarlo chiudendolo intorno a sé e di annientare l’altro.
Una tappa importante di questo percorso è il libro Trascendenza e intelligibilità, testo di una conferenza tenuta all’Università di Ginevra il primo giugno del 1983, ripubblicato in questi giorni da Marietti. Sarebbe una grave banalizzazione credere che il discorso di Levinas sia un sermone edificante sull’altruismo. Piuttosto l’esodo dall’essere all’altro è la necessità di uscire dalla sintassi autistica del greco. È il passo in fuori, verso l’altro, compiuto prima ancora di chiedersi: come devo comportarmi, che cosa devo fare? Senza questa etica, cioè l’uscita da sé, verso l’altro, l’io non esisterebbe neppure. L’inversione del cammino seguito dalla filosofia è la sovversione ebraica che segna la rottura “nell’asse dell’essere”. Questa relazione etica, “rapporto non violento all’infinito come infinitamente altro” – osserva Derrida – è la sola possibilità di aprire lo spazio della trascendenza e di liberare la metafisica.
Certo si tratta di una lettura scomoda e complessa per chi pretenda di continuare a crogiolarsi nell’eterno ritorno della vecchia metafisica – come se nulla fosse avvenuto. E si può essere d’accordo o no con le sue idee, le sue intuizioni, le sue aspirazioni. Ma come pochi altri Levinas ha lasciato una traccia profonda nella filosofia contemporanea: il segno dell’ebraismo.

Donatella Di Cesare, filosofa