Qui Milano – Un convegno dedicato alla bioetica dà il via a un ciclo di incontri dal tema Ebraismo e modernità

A un giornalista che gli chiese di essere sintetico nel trattare temi di etica medica, il rabbino capo di Milano Alfonso Arbib rifiutò l’intervista. Con questo aneddoto personale rav Arbib inaugura il convegno dedicato alla bioetica organizzato dal Dipartimento educazione e cultura (Dec), primo di un ciclo di incontri intitolato “Ebraismo e modernità”.
“Non si può – spiega Arbib – semplificare un discorso così delicato, rischiando di incorrere in imprecisioni o fraintendimenti. Questioni enormi, come quelle riguardanti l’inizio e la fine della vita umana, richiedono un atteggiamento intellettuale di timore, timore dell’errore innanzi tutto, bisogna sempre porsi nella prospettiva di poter sbagliare. Ma anche riverenza per l’altezza dell’argomento: la vita delle persone, nell’ebraismo come anche in altre prospettive religiose, è sacra. Per salvare una vita non solo si possono, bensì si devono trasgredire le mitzvot, ciò dà la misura della considerazione in cui è tenuto questo valore.
Dopo gli auguri di Hanukkah del presidente della Comunità Ebraica di Milano Leone Soued, è il moderatore della conferenza rav Roberto Della Rocca ad aprire i lavori. “L’intento del Dec – spiega il rav – nell’organizzare questo ciclo d’incontri su Ebraismo e Modernità, è quello di promuovere la cultura ebraica anche all’esterno della Comunità, di dare un contributo al dibattito attuale che coinvolge l’intera società”.
Idea da cui parte ogni riflessione sull’etica medica nell’ebraismo, introdotta da Della Rocca e ripresa poi dal presidente dell’Associazione medica ebraica Giorgio Mortara, è quella secondo cui l’uomo è un collaboratore di Dio nell’opera della creazione, e suo compito specifico è migliorarla. Ripristinando la salute di un paziente, un medico non interferisce mai con la volontà divina, semmai se ne fa aiutante terreno.
Posto questo assunto fondamentale, la bioetica ha il compito di stabilire quali sono i limiti entro cui l’intervento medico è lecito.
“I precetti dell’ebraismo – argomenta rav Gianfranco Di Segni – si dividono in chukkim e mishpatim. I primi sono regole il cui significato trascende la nostra comprensione, che vanno osservate solo perché lo ordina la Torah. I secondi invece sono leggi che possiamo comprendere, che la nostra ragione è in grado di giustificare. Le norme della bioetica ebraica rientrano in questa seconda categoria. È per questo che quella proposta dall’ebraismo è una bioetica universale, che, con qualche peculiarità, potremmo considerare laica”.
I relatori passano in rassegna tutte le principali materie di dibattito bioetico, e da diversi punti di vista. La dottoressa Daniela Dawan si occupa dell’aspetto giuridico della questione attingendo alle fonti della Costituzione italiana e del codice penale, tiene un’esauriente lezione sul nostro attuale ordinamento, mettendone in luce lacune e anacronismi. Ripercorre poi la vicenda giudiziaria della famiglia Englaro. Il caso di Eluana, comunque la si pensi, è stato la Porta Pia, presso l’opinione pubblica e gli intellettuali, di un vecchio modo di pensare, di un paradigma che, in nome della sacralità della vita, ostracizzava la morte, ne scacciava il pensiero. Eluana, suo malgrado, ha messo sotto gli occhi di tutti quanto il processo del morire sia cambiato negli ultimi anni rispetto ai millenni precedenti. Ha obbligato ognuno di noi ad accorgersi che gli strabilianti progressi della scienza medica ci hanno messo in condizione di prolungare a oltranza l’agonia, fisica e morale, di chi sta per terminare i suoi giorni.
Il tema del fine vita è quello che più coinvolge, emotivamente e intellettualmente, la platea del Teatro Franco Parenti, sede del convegno. Lungamente discusso dal dottor Cesare Efrati, gastroenterologo dell’ospedale israelitico di Roma, è forse l’argomento che impone gli interrogativi più radicali: è lecito per un medico accelerare la morte del paziente col fine di risparmiargli inutili sofferenze? In che modo? In quali casi? Come individuare la sottile differenza tra suicidio assistito, eutanasia e astensione dall’accanimento terapeutico? E ancora, come definire l’accanimento terapeutico? Non si può che concludere che vanno valutati i singoli casi, le specifiche condizioni. Ma quanto è significativa tale conclusione? A rigor di logica, dissolve il teorema dell’assolutezza della santità della vita. Il dovere di evitare la morte non è più “ad ogni costo”, non è più ab-solutus da condizioni, dipende da esse, anche se non tutti sono ancora disposti ad ammetterlo in questi termini.
È diffusa, nella nostra cultura, l’abitudine ad avere sempre un’opinione pronta, per tutto. L’invito del rav Arbib va proprio in senso contrario: lo studio di questioni di tal fatta non può mai essere sufficientemente minuzioso. Ecco perché, alla fine della conferenza, il pubblico torna a casa con tante nuove domande, piuttosto che risposte.

Manuel Disegni