Auschwitz, la scritta e l’osceno mercato

I giorni a venire ci diranno, almeno lo speriamo, cosa è veramente successo nel campo di Auschwitz I. Quel che sappiamo è che la triste e infelice insegna che contornava l’ingresso del Lager è stata trafugata. Si tratta di un gesto gravissimo, il cui danno è soprattutto di ordine simbolico. Nel corso del tempo, infatti, essa ha assunto una rilevanza che trascende la storia del luogo di cui pur è parte integrante, assurgendo a simbolo dell’oppressione universale, esercitata in ogni tempo e per ogni dove. L’oscenità, peraltro, sta tutta nel contrasto, di cui ora siamo pienamente consapevoli, tra l’apparenza del suo innocuo contenuto e il fatto di costituire il motto d’ingresso all’inferno. Il suo furto, quindi, offende tutti quanti hanno a cuore la dignità dell’uomo, il suo destino, i suoi bisogni, le sue speranze ma, soprattutto, la sua umana finitudine, ossia il suo essere fragile poiché creatura indifesa. Questo terribile scippo, consumatosi in una notte, con il favore delle tenebre, così come a volte avvenivano gli assassinii di massa, è uno schiaffo nei confronti dell’umanità. Dopo di che, alcune puntualizzazioni si impongono. Tralasciamo le perplessità su quello che sembra essere quanto meno un peccato di sciatteria da parte delle autorità polacche che, nominate conservatrici di un memoriale planetario, avrebbero dovuto esercitare un controllo ben diverso e, comunque, senz’altro assai più efficace. Come si possa smontare una insegna di tali dimensioni, senza che nessuno se ne accorga, pare poi una incongruenza di non poco conto. Al dunque, però, vale anche e soprattutto un distinto ordine di considerazioni. Quella scritta, «Arbeit macht frei», del pari ad altre, come sappiamo, campeggiava nei Kz, i Konzentrazionslager. Il motteggio ridondante e ripetuto – molto spesso fine a sé e quindi, come tale, ancora più insulso, poiché apparentemente del tutto decontestualizzato – era un ulteriore elemento di alienazione che veniva imposto ai prigionieri. Inutile cercare una coerenza logica, tra quelle parole e il luogo in cui erano esposte, che vada al di là della perdita di senso delle parole medesime, ovvero dalla morte della lingua, che precedeva la morte degli uomini. La Lagersprache era il codice della consunzione della vita: a morire erano non solo i corpi ma il senso della libera socialità e della reciprocità umana. Auschwitz I non era propriamente un luogo di sterminio ma produceva, insieme alla quarantina di campi che ruotavano intorno ad esso e a Birkenau, soprattutto dei morti. A fronte di ciò, dal dopoguerra, fino agli anni più recenti, la conservazione del sito ha conosciuto momenti alterni, sospesi tra l’indifferenza dei primi decenni e gli investimenti realizzati quando si intuì che, oltre ad essere un sacrario, poteva anche costituire un volano per il business turistico locale, sia pure in quella forma particolare che è il “dark tourism“. Inutile nasconderselo, ancorché il riconoscerlo sia fatto in sé sgradevole. Poiché è anche da ciò, ovvero dalla discrasia tra l’essere un luogo che imporrebbe il silenzio e il costituire una meta per comitive che, già nei tempi andati, si sono succedute accese polemiche. Dapprima sulla costruzione di un supermercato e, successivamente, di una discoteca in immediata prossimità del perimetro del Lager. Può la morte costituire uno spettacolo o divenire una sorta di oggetto di consumo collettivo? Non di meno ha pesato il fatto che il controllo della terra su cui sorge il campo è divenuto oggetto di contesa da parte del cattolicesimo tradizionalista che, nel nome dei “suoi morti”, soprattutto quei polacchi non ebrei che vi furono assassinati, ha dato seguito a conflitti in successione, da quello relativo alla presenza di un convento di suore carmelitane alla ben più grave “guerra delle croci”, innescatasi quando un gruppo, espressamente antisemita, cercò di “colonizzare” la terra di Auschwitz impiantandovi più croci in successione. Insomma, lungi dal costituire un elemento di pacificazione, la memoria del Lager di Auschwitz è assurta a oggetto del contendere, in una sorta di conflitto simbolico che rimanda, per alcuni versi, a quello guerreggiato, ferocemente combattuto molti decenni prima. Vale la pena di aggiungere che è ingenuo pensare che si possa pervenire all’obiettivo di raccogliere la più assoluta concordia sul modo di ricordare quel tragico passato che il sito del Lager incorpora in ogni parte di sé. La sua memoria è viva e fertile poiché si alimenta di contrapposizioni, più che di fittizi assensi. Il problema, quindi, non è cercare un improbabile punto di equilibrio bensì di insegnare che la forza della democrazia non è mai data dalla coincidenza aprioristica dei giudizi bensì dal loro confronto e dalla successiva capacità di mediarli. Attribuire poi il furto ai “negazionisti”, come alcuni hanno sbrigativamente già fatto, è un non senso, se non altro per l’ovvia constatazione che non si ruba ciò che si valuta privo di valore. Chi ha compiuto l’empia profanazione sa bene qual è il valore simbolico del cimelio. E qui tocchiamo un ultimo punto, che è quello che riguarda il feticismo che quei luoghi, loro malgrado, incorporano agli occhi di non pochi osservatori: si tratta di una sorta di valore aggiunto, che non è quello civile di monito imperituro bensì quello privato di oggetto di brama e desiderio. A margine dei Lager in questi decenni è cresciuto infatti anche un osceno mercato di cose, di immagini, di rappresentazioni. Non si tratta solo delle passioni patologiche di alcuni tombaroli ma di una inflazione commerciale di rimandi alla tragedia, che diventa quasi una sorta di brand mercantile, una specie di oggetto di insana identificazione, in una sorta di gioco splatter che azzera la vicenda storica per compiacersi, sadomasochisticamente, dell’attrazione fatale per la morte. Già Pierpaolo Pasolini aveva ragionato, non senza difficoltà, su questa deriva, più diffusa di quanto non si voglia credere. Il fascismo si è sempre alimentato della necrofilia. Nel furto dell’insegna (forse su commissione di un “collezionista”?) riecheggia allora questo tremendo tema di fondo, che è alla radice del male medesimo. Poiché quest’ultimo, come ci ha insegnato Hannah Arendt, non si alimenta di grandiosi drammi ma di insulse banalità, come il rubare una insegna di ferro.

Claudio Vercelli