In memoria di Yosef Hayim Yerushalmi

La scomparsa di Yosef Hayim Yerushalmi è passata un po’ come l’acqua sulla pelle, non lasciando apparentemente tracce degne di nota. In questa sede già Anna Foa, peraltro con sincero afflato autobiografico, aveva evocato il senso di una morte, poiché si può senz’altro parlare di un significato nell’altrui scomparsa, ponendolo in tensione con le percezioni e le emozioni di quanti rimangono. Il vuoto, a ben pensarci, ha una logica, sempre commisurabile allo spazio che occupa e al tempo che richiede per essere misurato. Per questo ci pare di potere dire che in un prossimo futuro l’assenza dell’insigne storico sia destinata a pesare più di quanto non paia adesso. Yerushalmi (nell’immagine) ha costituito per molti studiosi, non solo ebrei, un punto di svolta. Il suo fulminate saggio su «Zakhor: storia ebraica e memoria ebraica», editato in lingua inglese nel 1982 e poi in italiano l’anno successivo (tradotto da Daniela Fink), non costituisce solo un monumento di erudizione tascabile, alla quale peraltro molti autori di tale vulgata ci hanno abituati, ma uno squarcio nell’orizzonte. La dimensione delle «toledoth», le generazioni, ci diceva Yerushalmi, è l’angolo prospettico dal quale valutare l’evoluzione e le trasformazioni che le società ebraiche hanno conosciuto nel corso del tempo. Poiché se il tempo trascorre, esso non è narrato, dal punto di vista ebraico, per il tramite della storia bensì per il mezzo di quella funzione particolare che è il ricorso alla sapienza mnemonica, alimentata dall’esperienza comunitaria. Solo con gli statuti dell’emancipazione, tra il XVIII e il XIX secolo, la storia irrompe definitivamente nella coscienza di sé giudaica, aprendo un campo di riflessioni pressoché infinito e, aggiungiamo noi, offrendo alla cultura quel fenomeno logico, prima ancora che cronologico, conosciuto come «modernità». Si tratta allora, con una lettura e una scrittura non dissacranti, di leggere e interpretare il presente alla luce di un passato che riesca a incorporare in sé il conflitto tra le storie collettive (il modo di raccontarsi e, quindi, di percepirsi) e la cronaca dei fatti, anche laddove questi ultimi testimonino contro le prime. Più che una indicazione di un metodo basato sull’onestà intellettuale e avverso ad ogni dogmatismo, era il riconoscimento della tensione che sempre intercorre tra la memoria, come elemento della identità individuale e collettiva, e la storia umana. Yosef Hayim Yerushalmi, era nato nel Bronx, a New York, nel 1932, figlio di una famiglia di origine russa, emigrata, come tanti suoi pari, negli Stati Uniti. L’humus di provenienza, insomma, erano gli «shtetlach», che all’epoca parevano ai più parte non di un dolce passato da celebrare con irrisolta malinconia ma un brutale presente dal quale fuggire. La seconda generazione dei migranti – non a caso – aveva conosciuto una traiettoria di secolarizzazione che era passata attraverso la frequentazione delle scuole laiche, assurgendo poi al ruolo di professionisti nei diversi campi lavorativi. Si trattava non solo di una indiscutibile trasformazione sociale (ciò che caratterizzò l’immigrazione ebraica negli Usa fu essenzialmente una mobilità sociale dei molti che non aveva pari riscontro in altri flussi migratori) ma anche di un cambiamento culturale, che lasciava alle spalle una concezione organicistica ed essenzialista del giudaismo, per approdare invece ad una dimensione che ne valorizzava gli elementi dinamici. Yerushalmi studiò alla Yeshiva University, la cui impostazione era e rimane quella di offrire ai suoi frequentanti la possibilità di acquisire un curriculum di studi ispirato all’ebraismo ortodosso e alla filosofia della «Torah Umadda» («Torah e sapere secolare»), dove si combina il sistema di valori classico con quello della conoscenza più moderna. Nel 1956 era stato poi ordinato rabbino, al Jewish Theological Seminary di Manhattan, ottenendo, dieci anni dopo, il dottorato presso la non meno prestigiosa Columbia University. Dopo essere stato docente di storia ebraica e di civilizzazione sefardita nella medesima università, era infine divenuto titolare della cattedra Salo Wittmayer Baron, dove insegnava istituzioni di storia e cultura ebraica. Baron, anch’egli figlio dell’universo dell’ «yiddishland» (amava ricordare che della sua città natale, Tarnów, in Galizia, dei 20mila ebrei originari, dopo il transito dei nazisti ne erano rimasti una ventina), probabilmente lo storico dell’ebraismo più importante nel secolo appena trascorso, era stato il maestro di Yerushalmi, che ne aveva non a caso ereditato l’insegnamento. Il metodo comune era la contestualizzazione e la storicizzazione: per Baron, e di riflesso per Yerushalmi, non si poteva dare una storia ebraica scissa dalle influenze delle epoche e dei tempi nei quali essa si era articolata. Non di meno, la dimensione della trasformazione religiosa (un ossimoro per certuni, un dato di fatto per altri) richiedeva, per essere colta, l’analisi e la comprensione dei suoi legami con il percorso delle comunità ebraiche. Il tempo, il suo trascorrere, il significato che ad esso poteva essere attribuito, emergevano integralmente quando Baron ammoniva contro i cedimenti a favore di una «storia lacrimosa dell’ebraismo», affermando invece che se la sofferenza era parte integrante della traiettoria giudaica, essa si integrava con la gioia per l’epoca a venire. Non era estraneo, ai due autori, uno spirito larvatamente messianico, sia pure inserito in una lettura tutta razionalista del mondo. Era un di più che gli allievi coglievano attraverso i segni che i docenti davano durante le loro lezioni, del pari a chi crede che il futuro non è inscritto necessariamente nel presente ma senz’altro il presente si inscrive nel futuro.

Claudio Vercelli