Un ebreo fiero di essere
“In quei giorni, quando Moshé era divenuto grande, si recò a trovare i suoi fratelli e vide i loro lavori pesanti… “(Esodo 2:11). In questo versetto è detto tutto; poteva starsene comodamente nella sua bella casa a godere dell’alta posizione raggiunta, “Il faraone l’aveva nominato capo della sua casa” (Rashì, nella traduzione di S.J.Sierra), ma Moshé preferisce andare a trovare i suoi fratelli e dall’alto della sua posizione si rende conto delle loro sofferenze; quella fraternità che era mancata per tanto tempo nei rapporti fra Giuseppe e i suoi fratelli, appare qui subito evidente e profonda nell’atteggiamento di Moshé. “Egli si rivolse a loro con gli occhi e con il cuore per soffrire con loro” (Rashì). “Osservava le loro sofferenze, piangendo diceva: Mi dispiace per voi, oh potessi morire per voi!” (il Midrash).
C’è un vedere dell’indifferenza, e c’è un vedere della partecipazione. “Ha dato il suo cuore per vedere la povertà dei suoi fratelli” (Sforno). In questo consisteva la sua grandezza, che ha saputo uscire dalla sua casa per andare dai suoi fratelli ed in questo seguiva l’esempio di Bitia, la sua madre adottiva, la figlia del faraone che lo aveva salvato anche contro l’editto del padre (Rav Amos Rabello).
Come sapeva Moshé che quelli erano i suoi fratelli? Può essere, dice Ralbag, che girasse la voce nella casa del faraone che Moshé era ebreo e così lo seppe anche lui, oppure glielo disse la figlia di faraone: nella nostra lunga storia conosciamo qualche piccolo personaggio che avrebbe fatto di tutto per tener nascosta la sua ebraicità; Moshé non ha questi complessi: apprende di essere ebreo e agisce immediatamente allo scoperto.
Secoli dopo dirà il Rav J.B. Soloveitchik: “Un ebreo che crede nel popolo ebraico è un ebreo che vive col popolo ebraico dove si trova ed è pronto ad offrire la sua vita per lui, soffre delle sue sofferenze e gioisce delle sue gioie, partecipa alle sue guerre, si rattrista per le sue cadute e festeggia le sue vittorie…”(Al Hateshuvà, Gerusalemme, 1974, p. 98, in ebraico). Il Rav Zvi Jehuda Kook nelle sue conversazioni con gli allievi, metteva in risalto un altro aspetto del versetto: echav, i suoi fratelli. La prima azione di Moshé a contatto col suo popolo è stata il rinforzamento dall’interno; tutti, anche i meno buoni, sono considerati in questo frangente come echav: con questo è aperta la strada, lunga e complicata, verso la Gheulà.
Alfredo Mordechai Rabello, giurista, Università Ebraica di Gerusalemme