Il dialogo e il rispetto della differenza

“Siamo rimasti quelli che siamo sempre”. Sono le parole, semplici e profonde, con cui Leone Sabatello, di recente scomparso, ha raccontato la sua scelta di fedeltà di fronte alla possibilità di una salvezza attraverso l’abiura e la conversione. È “questa forza, questa tenacia, che rende grande la nostra Comunità” – ha sottolineato Rav Riccardo Di Segni a metà del suo denso discorso pronunciato ieri in sinagoga. Sta qui il “miracolo della sopravvivenza” del popolo ebraico.
Da parte sua Benedetto XVI ha indicato nel “dramma singolare e sconvolgente della Shoah” il vertice di un “cammino di odio”. E, riprendendo quel che aveva detto nella sua visita ad Auschwitz, ha affermato che “i potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità”, e volevano “uccidere quel D-o che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità”. Nel suo discorso e nei suoi gesti, oltremodo misurati, si deve leggere però l’aspirazione a proseguire un cammino comune, un “cammino irrevocabile di dialogo, di fraternità e di amicizia”.
In questo senso la visita di ieri va vista come un dialogo riuscito. Ed è un sollievo – come quando si ricomincia a parlare dopo una interruzione. Ma non basta. E perciò è un errore usare toni trionfalistici e imprudente sostenere che le divergenze che hanno preceduto questo incontro vanno dimenticate. Le divergenze restano. Non solo nella lettura dei fatti storici più recenti, da Pio XII (su cui ha richiamato l’attenzione Riccardo Pacifici) al ruolo della Chiesa durante il nazismo e il fascismo, alla questione dei bambini ebrei, salvati da istituzioni religiose, ma la cui identità è stata cancellata. Molti altri capitoli dovranno essere aperti. D’altronde le divergenze tengono aperto lo spazio del dialogo. Perché il dialogo può esserci solo dove non c’è appropriazione dell’altro, ma rispetto per la “differenza”.
Occorre riconoscere che in realtà si è solo all’inizio di un lungo cammino e che solo attraverso una più profonda conoscenza reciproca e attraverso progetti comuni – come quello di una “ecologia non idolatrica” proposto da Rav Di Segni – si possono muovere passi decisivi. Il dialogo non può ridursi solo alla discussione sulle diverse letture dei fatti storici. Né ci si può accontentare di una convergenza in alcuni temi esegetici. Piuttosto il dialogo deve avere uno spessore teologico. Certamente Ratzinger è tra coloro che, nella chiesa cattolica, hanno riscoperto il valore della Torà anche per i cristiani. Lo ricorda ad esempio Gian Maria Vian in un articolo pubblicato ieri (Messaggero 17 gennaio), dove peraltro accenna – nello stesso contesto – alla “ideologia pagana del nazionalsocialismo”. Il problema riguarda anzitutto il cristianesimo che ha bisogno – oggi più che mai – di una autoriflessione critica, di un percorso quasi di teshuvà. Perché solo così – come diceva già Elia Benamozegh – il cristianesimo potrà “spogliarsi di tutto ciò che ha di contrario all’ebraismo”, deporre “i brandelli di paganesimo che lo hanno reso irriconoscibile” e che hanno perpetuato “l’inimicizia, la lotta fratricida tra ebraismo e cristianesimo, per cui il mondo piange ancora”. Vi è nel cristianesimo un enorme potenziale trattenuto dall’antiebraismo cristiano. Al fuoco del Maghen David, della Stella che – dice Rosenzweig – ha attraversato e attraversa la storia, a quella fede e fedeltà, “miracolo della sopravvivenza dell’ebraismo”, il cristianesimo può attingere nuova vita. Ma per questo deve per sempre lasciarsi alle spalle la teologia della sostituzione e l’insegnamento del disprezzo. Non l’abolizione e il superamento della Torà, ma il suo compimento e la sua diffusione devono essere la meta del cammino comune.

Donatella Di Cesare, filosofa