Qui Firenze – “Anche io fui salvato dalle suore di Santa Marta”

In una delle zone più incantevoli di Firenze, la verde e dolce collina di Settignano, ha sede il Convento delle Suore di Santa Marta: il luogo in cui furono nascosti, a partire dal 1943 e insieme ad altri bambini, il padre e lo zio di Riccardo Pacifici, l’attuale presidente della Comunità ebraica di Roma. Ma il portone del convento è chiuso a chiave. Dall’agosto del 2008, infatti, le sette sorelle che vi abitavano e che, al suo interno, hanno portato avanti per decenni l’accoglienza e la formazione di tanti ragazzi, sono dovute andare via. Troppi i costi da sostenere. E così, ad occuparsi della scuola, che porta il loro nome e che è situata a breve distanza dall’edificio, pensa dal 2001 una cooperativa di insegnanti (nell’immagine sotto suor Mariana, preside dell’istituto scolastico).

La storia di queste religiose, che non hanno mai voluto farsi pubblicità, è divenuta di dominio pubblico dal momento in cui il presidente Pacifici, in occasione della visita di Benedetto XVI alla sinagoga della capitale, ha ricordato lo straordinario coraggio dimostrato dalla congregazione. Suggellando il ricordo con un abbraccio commovente a suor Vittoria, venuta in rappresentanza dell’istituto, cui lo Stato di Israele ha conferito la Medaglia dei Giusti tra le Nazioni.
Tra i tanti bambini ebrei che trovarono rifugio a Settignano, le stime parlano di circa 120, c’era anche Umberto Di Gioacchino (nell’immagine in alto), 69 anni portati benissimo (“Il segreto? Non mi sono mai sposato” dice tra il serio ed il faceto), una vita passata tra mondo della moda, teatro, musica e scuola della Comunità ebraica di Firenze, di cui è stato per lungo tempo insegnante.
Umberto, ti ricordi qualcosa di quel periodo?
No, purtroppo ero troppo piccolo: avevo appena tre anni. Tutto ciò che so a riguardo mi è stato raccontato in seguito.
Chi ti ha parlato per la prima volta di quello che avevano fatto le suore di Santa Marta?
Ne sono venuto a conoscenza in modo piuttosto casuale, dopo oltre un decennio. Direi quasi di rimbalzo. In casa mia parlare della guerra e delle persecuzioni razziali è sempre stato un tabù.
Non ne parlavate davvero mai?
Quando a mia zia Anna (la moglie del rabbino Nathan Cassuto ndr) chiedevo cosa avesse provato in quei momenti era solita rispondere: “È stato terribile, non puoi capire!”. E la cosa finiva là. Mio padre ha combattuto con i partigiani ma l’ho scoperto soltanto parecchio tempo dopo la fine del conflitto, cioè quando arrivò a casa nostra una tessera dell’ANPI a lui intestata.
Cosa ti hanno raccontato? Che tipo di bambino eri durante la tua permanenza nel convento?
Dicono che non socializzassi, che mi isolassi dal resto del gruppo. Bussavo continuamente sui mobili e sui muri: le suore pensavano fossi autistico. Sono tornato ad essere un bambino “normale” soltanto quando ho potuto riabbracciare i miei genitori. Anche se ho incominciato a parlare molto tardi.
Hai mai avuto modo di conoscere Emanuele e Raffaele Pacifici?
Loro erano già abbastanza grandicelli e io poco più di un neonato. Non credo che siamo mai entrati in contatto. I grandi stavano con i grandi ed i piccoli con i piccoli.
Neanche dopo la fine della guerra?
No, non ci siamo mai conosciuti. Ma ovviamente conosco la loro storia.
Ai fratelli Pacifici fu cambiato il cognome in Pallini. Sono curioso: quale era ufficialmente il tuo cognome?
Non te lo so dire. Di sicuro, per evidenti motivi di sicurezza, le suore non tenevano un registro con la lista dei nomi degli “ospiti” ebrei! E ormai, anche volendo, non è rimasta in vita nessuna di loro a cui potrei eventualmente chiederlo.
Per quanto a lungo sei stato a Settignano?
Circa sei mesi, dall’ottobre del 1943 all’aprile del 1944. Poi, un’amica di famiglia ospitò me ed i miei genitori in un casolare a Colle di Compito, nei pressi di Lucca. Ci restammo fino all’arrivo degli Alleati. A questa signora e alle suore devo la mia vita.
Del convento, come detto, non ricordi niente. Hai delle reminiscenze, invece, di quei mesi nel casolare?
Sì, di un bombardamento, che mi divertì moltissimo perché lo scambiai per dei fuochi d’artificio. E poi dei pulcini che razzolavano e pigolavano in cerca di cibo nel giardino. Ma flash ancora più nitidi ce l’ho dell’immediato dopoguerra. E riguardano mia zia.
Ce li vuoi raccontare?
Ho sempre impressa nella mente la scena di lei che, ancora vestita di stracci, apre l’armadio di mia madre e fissa meravigliata il suo guardaroba, composto da abiti normalissimi ma che, in quel momento, le dovevano sembrare chissà quale cosa. E poi di quando, sulla spiaggia di Viareggio, rivolta ad un soldato esclama: “Ero sicura che non l’avrei mai più rivisto”. Si riferiva al mare.
Da grande ti sei occupato anche di teatro. Hai mai provato a portare sul palco gli anni delle persecuzioni?
Sì, ad esempio ho messo in scena lo spettacolo “Quei giorni in nero”: l’ultima performance, comunque, risale a tanto tempo fa. Recentemente, però, ho ricevuto una telefonata da Duccio Levi Mortera, che sembrava intenzionato a riproporlo.
Se ne farà qualcosa?
Vedremo, mi piacerebbe molto.
Qual è la trama?
Ti dico solo che si parla di Pio XII.

Adam Smulevich