Memoria – Rinascita ebraica in Polonia e ricordo di Marek Edelman

Un grande segnale di speranza arriva dalla Polonia, dove per lungo tempo si è creduto che le persecuzioni nazi-fasciste, con lo sterminio di tre milioni di ebrei, avessero scritto per sempre la parola fine alla millenaria storia ebraica del paese.
A raccontarci questo piccolo, grande miracolo è Konstanty Gebert illustre giornalista e attivista ebreo polacco, uno dei più importanti reporter di guerra del paese, a Milano per partecipare al convegno “Fiaccole di luce: uomini giusti in tempi oscuri” organizzato dal Giardino dei Giusti del capoluogo lombardo, in occasione del Giorno della Memoria. Quest’anno si è scelto di dedicare un albero a Marek Edelman, uno dei comandanti dell’insurrezione del Ghetto di Varsavia, recentemente scomparso. Insieme a lui sono state celebrate le figure di Vassilij Grossman, scrittore russo duramente perseguitato dal regime comunista, e Guelfo Zamboni, console italiano a Salonicco nel 1943 che salvò centinaia di ebrei dalla deportazione. (Nell’immagine Konstanty Gebert mentre legge Pagine Ebraiche e a fianco a lui il figlio adottivo di Vassily Grossman).
Dottor Gebert, è appena uscito in inglese il suo libro Polish Aleph-Bet: Jews in Poland and Their Reborn in the World (Aleph-Bet polacco: ebrei in Polonia e la loro rinascita nel mondo). Ci racconta qualcosa di questa nuova vita ebraica, che sembrava cancellata per sempre?
All’inizio degli anni Ottanta, quando una studiosa mi chiese la mia opinione sul futuro dell’ebraismo in Polonia le risposi che noi pochi rimasti saremmo stati gli ultimi. Io sono nato nel 1953 e nel mio tempio ero il più giovane, mancavano le due generazioni precedenti. La Polonia non ha subito solo il nazismo, dopo la guerra si è instaurato il regime comunista, che ha reso quasi impossibile una vita ebraica. Così come ero certo che non sarei vissuto abbastanza a lungo per vedere il mio paese libero e democratico, pensavo che l’ebraismo in Polonia si sarebbe spento definitivamente con la scomparsa dei pochi anziani rimasti. Ora posso dire che sono ben felice di essermi sbagliato su entrambi i fronti.
Com’è stata possibile questa rinascita?
Dopo il crollo del regime, pian piano molte persone che i genitori avevano cresciuto nell’assimilazione per la paura di nuove persecuzioni hanno voluto riscoprire il loro ebraismo, trasmetterlo ai figli, riappropriarsi della propria identità. Oggi nel mio tempio scorrazzano tanti bambini e abbiano una scuola ebraica con duecento allievi. Quando inizi a parlare di bambini, scuola e educazione, significa che un futuro, per la comunità ebraica polacca, esiste eccome, sia pure con qualche problema.
Problemi? Fa riferimento all’antisemitismo?
L’antisemitismo in Polonia purtroppo esiste ed è sicuramente più visibile che in altri paesi in Europa. Ci tengo però a specificare che ci sono anche molti strati della popolazione polacca che provano simpatia e interesse per l’ebraismo, e che io non ho nessun timore a girare con la kippah in testa, a differenza di quanto accade, per esempio, a Parigi. No, il nostro principale problema non è l’antisemitismo, è la demografia. La nostra è una comunità piccola, in tutto il paese vivono solamente settemila ebrei. La grande sfida è quella di fare in modo che i giovani non si allontanino dall’ebraismo e nascano nuove famiglie che possano proseguire il nostro cammino.
Lei era molto amico di Marek Edelman. Ci regala un suo ricordo speciale per raccontare chi era questo straordinario personaggio?
Nell’estate del 1993 dopo aver organizzato diversi convogli per Sarajevo (all’epoca assediata dall’esercito serbo ndr) per portare cibo, medicinali e aiuti materiali, decidemmo che sarebbe stato utile un viaggio cui partecipassero autorità e personalità politiche. Marek aveva più di settant’anni, il tragitto era lungo e scomodo, la visita pericolosa, ma non ci fu verso di convincerlo a rimanere a casa. Durante la notte ci fermammo in Austria. Tutti noi dormimmo per terra, e così volle fare anche lui, nonostante la nostra insistenza perché prendesse una stanza d’albergo, un letto. “I soldi per questa spedizione ce li ha dati la gente, non possiamo sprecarli per queste frivolezze” disse. In quel momento ho capito il motivo per cui Marek non faceva la morale. Lui viveva nella morale. Era la sua sfida. Riteneva che il male esiste dentro l’uomo e sarebbe ipocrita non riconoscerlo, ma ciascuno deve contrastarlo. Non vedeva differenze tra il combattere nel Ghetto di Varsavia e la sua attività di medico. Nella sua prospettiva si trattava sempre di salvare delle vite. Rifiutava la mitizzazione sua e dei suoi amici, e l’ho visto più volte insultare e cacciare in malo modo chi era venuto a omaggiarlo come un eroe. Gli piaceva arrabbiarsi, a Marek. Pensava che la guerra in certi casi fosse necessaria, eppure raramente ho visto tra due uomini una sintonia perfetta come quella tra lui e il Dalai Lama, l’uomo della non-violenza, quando si incontrarono. La stessa lunghezza d’onda. Marek non aveva ambiguità e ipocrisie. Forse è anche per questo che sbagliava tanto, perché di sbagli ne ha commessi. Ma penso che se anche avesse passato metà della vita a dire sciocchezze, con tutto quello che ha fatto nell’altra metà questo non avrebbe scalfito in alcun modo la sua grandezza.

Rossella Tercatin