Il dilemma Gilad Shalit
La vicenda dell’atteso scambio tra il giovane soldato Gilad Shalit e i circa mille detenuti palestinesi presenta, senza dubbio, caratteri di assoluta singolarità sul piano militare, politico, giuridico. Come già altre volte nella storia del conflitto mediorientale, è evidente che siamo del tutto al di fuori dei fenomeni di normali scambi fra prigionieri, usuali fra potenze belligeranti, come anche dei pagamenti “in nero” effettuati a organizzazioni criminali per la liberazione di ostaggi rapiti. Uno stato di diritto, in questo caso, è chiamato a rinnegare apertamente sé stesso, le proprie regole e i propri principi, piegandosi alla forza del ricatto.
Non è la prima volta che accade, ma mai il prezzo richiesto è apparso tanto elevato, e nessuno, certamente, vorrebbe trovarsi al posto di chi, nel governo d’Israele, si trova di fronte a un così terribile dilemma. Pagare o non pagare la pesantissima contropartita, rilasciando tanti pericolosi criminali, molti dei quali macchiatisi di crimini efferati, condannati a lunghe pene detentive? Non c’è dubbio che le ragioni dell’opportunità politica e della sicurezza del Paese spingano tutte contro lo scambio. Centinaia di famiglie israeliane, i cui congiunti sono stati colpiti dai prigionieri da liberare, vedrebbero mortificato il loro desiderio di giustizia. La forza di deterrenza esercitata dal sistema giudiziario d’Israele uscirebbe gravemente vulnerata: chiunque saprebbe, domani, che, anche se catturato e condannato, prima o poi sarebbe comunque rilasciato, grazie a futuri scambi. Molti dei prigionieri rilasciati – non c’è dubbio – tornerebbero a colpire. Hamas otterrebbe una straordinaria vittoria politica, dimostrando a tutto il mondo arabo che solo la strategia della forza e della violenza è vincente. I ‘moderati’ di Abu Mazen sarebbero costretti a riconoscere il successo dei rivali, e sarebbero debitori, nei loro confronti, per la liberazione di centinaia di loro uomini. Le forze più estremiste, dovunque, uscirebbero galvanizzate, pronte a nuove sfide. Israele, sul tavolo negoziale, avrebbe davanti, verosimilmente, avversari molto più duri e ostili. E il rapimento di altri soldati, di fronte all’evidente successo, diventerebbe l’obiettivo politico numero uno dei fondamentalisti.
E’ evidente, ripetiamo, che lo scambio appare, per Israele, una mossa fortemente autolesionista. L’Italia, nel 1978, non si piegò alle Brigate Rosse, lasciando Aldo Moro al suo destino, per non pagare un prezzo cento volte inferiore (cento volte: i terroristi chiesero il rilascio di dodici prigionieri, non di mille, e probabilmente si sarebbero accontentati di uno solo). Chiunque, pertanto, direbbe, con la ragione, di no. Ma basterebbe vedere per un attimo una foto di Gilad, incrociare il suo sguardo di ragazzino, timido e sorridente, per cambiare idea. Il cuore va in una direzione opposta.
Israele, si dice, è lacerata. Benedetta questa lacerazione, che mostra l’esistenza di un’intelligenza, e di un cuore.
C’è qualche lacerazione nel campo avverso? Quante voci si sono levate, nell’intero mondo arabo, a perorare la causa di Gilad, chiedendo che sia restituito alla sua famiglia, subito e senza condizioni, semplicemente in quanto innocente? Quanto silenzio, e quanta solitudine.
Francesco Lucrezi, storico