Il ritorno travolgente di Radu Mihaileanu: “Venite tutti al gran Concerto delle identità”
“Impostura positiva e identità multiple”. Così Radu Mihaileanu, il regista di origine rumena ma naturalizzato francese, definisce la chiave, la cifra, di tutti i suoi film. Anche Il Concerto che sta per uscire nelle sale italiane e che in…
“Impostura positiva e identità multiple”. Così Radu Mihaileanu, il regista di origine rumena ma naturalizzato francese, definisce la chiave, la cifra, di tutti i suoi film. Anche Il Concerto che sta per uscire nelle sale italiane e che in Francia ha superato il milione di spettatori. Lo incontriamo a Parigi, dove vive nell’XI arrondissement, un quartiere non chic ma pieno di vita e multietnico. “Per me è una grande fonte di ispirazione”, racconta, un sorriso appena accennato tra i baffi sottili e la barba a punta, da intellettuale. “E’ un quartiere meticcio, come i miei personaggi”.
Lei conosce bene la condizione di diverso.
Sono arrivato a Parigi nel 1980. Ero rumeno ed ebreo, mi sentivo handicappato,
mi vergognavo. Dopo qualche tempo non sapevo più qual era la mia identità. Finché all’improvviso ho capito che non esiste un’identità unica. Abbiamo tutti dentro di noi migliaia di identità, di influenze che si incrociano, siamo tutti meticci di anima. Gastronomia e musica lo hanno compreso e si sono lasciati contaminare. L’umanità invece ha ancora paura del diverso, lo vive come una minaccia, mentre è una ricchezza.
Cosa pensa del dibattito sull’identità, che sta dividendo la Francia?
C’est une betise, una sciocchezza. Definire è mettere in prigione, ed è un grande errore imprigionare unapersona in una identità. Significa farne un essere a una dimensione, un potenziale fanatico.
Come mai i suoi film spesso hanno come protagonisti degli impostori?
E’ anche questo un tema autobiografico. L’impostura è ciò che ha salvato la mia famiglia. Mio padre, minacciato dal nazismo, riuscì a cambiare nome e cognome, da Mordechai Buchman a Ion Mihaileanu; e io stesso per scappare dal regime Ceacescu che non concedeva visti di emigrazione, ho dovuto fingere di andare a trovare mio nonno in Israele per riuscire a studiare in Francia. Si pensa sempre all’impostura come a qualcosa di negativo. Ma in situazioni drammatiche l’impostura può essere una forma di creatività, di ingegnosità che consente di trovare una scappatoia in modo ludico,invece che soccombere.
Da dove viene questa comicità surreale?
La witz è parte della mia cultura ebraica, o meglio yiddish. Gli ebrei degli shtetl (i miei provengono da un paesino della Moldavia), avevano un profondo senso dell’umorismo,
una reazione alle sofferenze e alle difficoltà, un’arma gioiosa e intelligente contro la barbarie e la morte.
Lei è molto legato alla famiglia. E’ vero che porta suo padre sul set?
Sì, il primo ciak di tutti i miei film è stato lui a darlo. E Train de vie è ispirato, rovesciandola, a una vicenda che lo ha coinvolto. C’è stato un treno della morte in Romania, di cui parla anche Curzio Malaparte, che, promettendo agli ebrei di portarli in Transnistria, li fece girare in tondo per giorni e giorni, finché tutti morirono di fame, sete, stenti. Ottomila persone persero così la vita. Mio padre sfuggì per miracolo, anche se poi fu internato in un campo di lavoro vicino a Timisoara, dal quale riuscì a evadere.
Anche gli altri suoi film prendono spunto da vicende reali?
Sì, Va’ e vivrai nasce dall’incontro a Los Angeles con un ebreo falascià arrivato in Israele con l’Operazione Mosé. E Le Concert è ispirato a un fatto realmente accaduto al Bolshoi. L’orchestra doveva dare un concerto a Hong Kong, ma il direttore si ammalò e i musicisti rifiutarono di suonare senza di lui. Così il Teatro mandò un’altra orchestra, tentando di rifilarla per quella vera. Ma fu smascherata, e il concerto saltò.
Lei è religioso?
No, se intende dire osservante. Sì, se intende la religione come cultura, dottrina filosofica. Per me la religione pone degli interrogativi, fondamentali, ma non dà delle risposte. Perché la domanda ci lascia liberi, mentre la risposta ci imprigiona.
Nel 2009 lei è stato presidente della Commissione del Premio Ecumenico al Festival di Cannes. Un premio istituito da due Associazioni, una cattolica, l’altra protestante…
Sì, è stato un grande onore. All’inizio ero un po’ diffidente, che cosa ci faccio lì io, ebreo… ma avevo torto. Sono stato accolto in modo meraviglioso, da persone intelligenti, attente alla diversità, senza nessuna intolleranza. Ci siamo scambiati belle idee sul cinema, e sulla vita, e siamo stati unanimi nell’attribuire il premio a Il mio amico Eric di Ken Loach e dare una menzione speciale a Il nastro Bianco di Haneke.
Cosa ci dice del suo rapporto con gli zingari, che nei suoi film appaiono spesso?
Amo il popolo gitano. Ho imparato a conoscerlo da bambino. Ho passato molto tempo in un villaggio di contadini, al margine del quale c’era un campo di zingari. Ho scoperto
un popolo stupendo, che ha molti valori simili a quelli di noi ebrei: l’amore per la libertà, l’erranza, la musica, l’arte. Abbiamo condiviso le stesse tragedie, perché siamo dei diversi, non vogliamo integrarci, e nessuno sopporta la diversità.
E con Israele?
E’ un Paese che amo e al quale mi sento profondamente legato. Mi piace che sia un Paese in cui convivono 130 identità diverse. Per un certo periodo si è cercato di amalgamarle, ora invece sta subentrando l’amore per la differenza, ed è un bene.
Si arriverà alla pace?
Non la possono fare né gli israeliani né i palestinesi, che sono entrambi delle vittime. La pace si potrà fare solo quando lo vorranno Siria, Iran e Arabia Saudita.
La cinematografia israeliana sta vivendo un momento magico
E’ paradossale, ma spesso dalla tragedia, dalle difficoltà nasce l’arte, come bisogno, urgenza di esprimersi per sopravvivere, per difendersi. E infatti i migliori films oggi vengono, oltre che da Israele, dalla Corea del Sud, dalla Romania, dall’Iran.
Prossimi progetti?
Sto finendo di scrivere un altro film, che girerò in arabo. Un modo di esplorare nuove identità, anche perché parlerà di donne. Si ispira a una vera storia avvenuta in Turchia: uno sciopero dell’amore, tipo quello di Lisistrata. E parlerà di nuovo di libertà, di identità, di condizione umana.
Viviana Kasam, Pagine Ebraiche – febbraio 2010